Storie di Accademie

Ho incontrato la Musica alle soglie della maturità, ornamento di una fanciulla complicata e bellissima, responsabile di una passione insopprimibile che ancor arde immutata. Un percorso di studi anomalo, sostanzialmente autodidattico (i Maestri che ebbi accanto – Alceo Galliera, Alberto Mozzati, Giulio Confalonieri, Carlo Maria Giulini – furono comunione d’animo, stimolo di grandezza, modello di professionalità, prima ancor che docenti), mi guidò ad amare la musica strumentale di ogni epoca, dalla più remota a quella utopica dell’avanguardia contemporanea.

La voce umana mi aveva emozionato soltanto nelle forme intricate della polifonia, espressione dell’uomo collettivo, dove le parole, illogicamente scomposte e sovrapposte, e dunque incomprensibili, servivano per innervare le astratte elucubrazioni dei fiamminghi o per avvicinare alla terra le divine consonanze di Palestrina; per dare empiti d’umanità alle lamentazioni di Monteverdi e Cavalli o per nascondere la turbata sensualità di Gesualdo da Venosa. Il melodramma, l’opera lirica mi apparivano estranei alla purezza idiomatica del suono organizzato, e la parola, crudamente volta al suo significato semantico, sembrava distogliere dal volo onirico, gravando la leggerezza dello spirito con la materialità del reale. Se andavo ad ascoltare opere liriche, era per abbandonarmi al fluire del discorso musicale sommo di Mozart, Wagner, Beethoven, dell’ultimo Verdi, di Debussy, Stravinskij, Berg.

Ascoltando quei capolavori ponevo scarsa attenzione alle voci, considerate alla stregua di strumenti solistici, e le parole pronunciate servivano a meglio sintonizzare l’immaginazione con quella del compositore piuttosto che disegnare caratteri o evocare visioni.

Dirigendo stabilmente l’Orchestra da camera del Politecnico e lavorando frequentemente all’Angelicum di Milano, ebbi occasione di coltivare la musica vocale del primo Barocco e del primo Settecento: Carissimi, Purcell, Monteverdi, Cavalli, Scarlatti, Händel, Vivaldi (di Händel trascrissi e diressi le prime riprese moderne degli oratori “italiani” La Resurrezione e Il trionfo del tempo e del disinganno, e di Vivaldi quelle della Juditha Triumphans e de La Senna festeggiante, in edizioni filologiche pubblicate da Ricordi); poi, avviata la carriera operistica, incontrai il belcantismo protoromantico: Rossini, Bellini, Donizetti, dove il canto, strumento princeps del melos, assumeva l’onere di comunicare l’emozione cogente.

Quando si susseguivano decine di arie, anche bellissime, ma sempre di struttura similare e immancabilmente frammezzate da porzioni più o meno corpose di recitativo secco, la capacità della voce cantante di produrre mille differenti sfumature per generare mille differenti emozioni diventava essenziale per mantenere desta la concentrazione di un pubblico che, a differenza di quello d’epoca, uso a interpolare l’ascolto con liberatorie diversioni nei retropalchi, siede compunto dalla prima all’ultima battuta.

Quando l’interesse di musicisti e ascoltatori propiziò la riscoperta di opere e autori dimenticati, aprendo i confini del repertorio operistico a compositori di ineguale orientamento stilistico, gli interpreti dovettero recuperare o forgiare strumenti adeguati a tradurne sensatamente i codici espressivi. Fu in quegli anni che il fato decise di indirizzare la mia curiosità di studioso verso repertori dove il canto doveva necessariamente divenire totopotente, capace di sommare alle ragioni del cuore quelle dell’intelletto aggiungendo nobiltà, raffinatezza, cultura, fantasia di rutilanti colori alla naturale funzione di dar voce alle passioni e ai sentimenti pretesi dal sanguigno repertorio romantico e verista. L’incontro fortuito con Gioachino Rossini e la sua musica mi trovò preparato al compito di divenirne apostolo, grazie anche a un’esperienza di lavoro che pongo alla base della mia formazione professionale.

Nell’immediato dopoguerra, il sovrintendente Antonio Ghiringhelli aveva riportato il Teatro alla Scala al ruolo di preminenza destinatogli dalla storia, chiamando i migliori ingegni a realizzare un repertorio rinnovato nei titoli e nello spirito (basti pensare al rapporto privilegiato stabilito con Toscanini, De Sabata, Furtwängler, Karajan, Mitropoulos, Luchino Visconti, Maria Callas, Renata Tebaldi, Giulietta Simionato, Giuseppe Di Stefano, Mario Del Monaco, Ettore Bastianini, Cesare Siepi…). Oltre a produrre memorabili spettacoli, taluni profondamente innovativi, Ghiringhelli aprì il teatro alla città con iniziative che ne moltiplicarono il coefficiente culturale, prefigurando la splendente stagione di Paolo Grassi, Claudio Abbado e Giorgio Strehler. Fra le nuove intraprese, una arrivò a sovvertire in profondità il panorama interpretativo dell’opera lirica, talché risulta incredibile lo scarso rilievo dato alla sua memoria.

La Scala ingaggiò a tempo pieno Giulio Confalonieri, critico musicale rispettato, ma soprattutto grande scrittore e fervido studioso, uso a ripensare ogni aspetto dell’arte con giudizio indipendente, sovente antitetico a quello corrente. Alterne vicende patrimoniali gli avevano concesso lunghi periodi di raccoglimento meditativo, nei quali coltivava la composizione e ripensava genialmente la storia della musica, mescolati ad altri dove esercitava, oltre a quella del recensore, la professione di pianista accompagnatore e Maestro di canto. La Scala gli commise una serie di conferenze, inizialmente destinate agli studenti universitari, ma presto diventate un appuntamento cittadino a cui accorrevamo in tanti per ascoltare concetti nuovi su temi noti, dissacratori in apparenza, in realtà saldamente ancorati a irrefutabili analisi critiche. Soprattutto, gli affidò la direzione di una scuola di canto che aveva l’obiettivo di preparare una coorte di giovani talenti a iniziative connesse all’attività del teatro, ampliatasi con l’apertura della Piccola Scala, il teatro bomboniera sorto accanto alla sala del Piermarini.

Nacquero, negli anni cinquanta, i Cadetti della Scala, a mio avviso l’evento musicale più rilevante, insieme alla Rossini renaissance, occorso in Italia nella seconda metà del ventesimo secolo, e come quello foriero di radicali cambiamenti nella pratica e nella ricezione dell’opera lirica.

Come Maestro di canto, Confalonieri aveva prerogative che lo distanziavano dai colleghi: non era un ex cantante (quindi non aveva assorbito i condizionamenti di una militanza non sempre irreprensibile); era un musicista a tutto tondo con formazione internazionale (quindi non isolava i problemi specifici della voce dalla visione d’insieme dell’opera d’arte); possedeva una cultura enciclopedica (in un tempo in cui il firmamento lirico raramente brillava per aperture intellettuali esulanti dalla professione).

Dato il rapporto filiale che mi legava a lui, ho potuto stargli vicino nella traiettoria milanese del suo lavoro con quei giovani, sedendogli accanto per interminabili, bellissime ore, foriere di esperienze che non potevo immaginare quanto preziose. Cito alcuni nomi di quei giovani artisti, perché l’ingiustizia del silenzio non li cancelli dalla memoria: Ilva Ligabue, Mariella Adani, Fiorenza Cossotto, Bianca Maria Casoni, Luigi Alva, Ugo Benelli, Paolo Montarsolo, Carlo Badioli, Paolo Pedani, Sergio Bruscantini, Ivo Vinco, Carlo Cava. I Cadetti della Scala, con la loro solida e aggiornata professionalità, portarono nel mondo una nuova civiltà di canto e recitazione, accelerando l’evoluzione che ha reso possibile la corretta restituzione di tante opere fin allora ineseguibili.

La scoperta del belcanto trasformò radicalmente la mia ricezione della voce umana. Presi a leggere libri e saggi sull’argomento e mi imbattei in colui che per primo nel nostro Paese coltivò la passione per il virtuosismo stellare: Rodolfo Celletti. Nella sua Storia del belcanto, Celletti collega la nascita di questa vocalità sofisticata e artificiale, lontana dalla salmodia ieratica del canto monodico sacro quanto dal plebeo realismo di quello popolare, all’universo maraviglioso espresso dal teatro protobarocco. Un mondo evocato nei colti dibattiti dei classicisti di casa Bardi e identificato con l’ellenismo arcadico dove Dafni e Cloe vivevano l’amore in pagana libertà, complice una natura ammaliatrice, ma anche un’atmosfera morale che confaceva ai meno austeri accademici delle tante confraternite che coltivavano il libertinismo spirituale di Epicuro declinato dal Chi vuol esser lieto sia, di doman non c’è certezza, ribelle all’episteme giudeo-cristiana imposta dalla tomistica. Un mondo affascinante dove i mortali si mescolano miracolosamente ai divini dell’Olimpo rovesciandone i comportamenti: gli dei, lungi dall’insegnare la virtù, coltivavano l’evasione peccaminosa e gli uomini, vittime o complici, vengono ricompensati con l’assunzione all’immortalità. Uno stravolgimento che non poteva poggiare sulla razionalità del giudizio né sul rigore della logica, ma che doveva necessariamente ricorrere all’ausilio dell’immaginazione poetica, per ricreare in immagini oniriche storie che solo nel funambolismo del sogno potevano trovar senso.

Naturale che per accompagnare e descrivere tali eventi convenisse ricorrere a un canto antinaturalistico, dove le passioni trovassero accensione non nei moti sinceri di melodie sgorgate da un cuore palpitante, ma in un codice di segni astratti, lontani da ogni pretesa di significazione semantica: tocca all’interprete, con le risorse della sua tecnica, con la creatività della sua immaginazione, col fascino del suo carisma insufflare luce e vita ai simboli di quel canto, accortamente predisposto al gioco. E maggior merito se lo risolverà in modo sublime, affrancato da ogni richiamo attinente al reale, dovesse per questo ricorrere alla scelta innaturale del travestimento o della castrazione.

L’incontro col responsabile del contagio belcantistico non fu pacifico, nonostante la reciproca stima derivata dai suoi scritti sulla materia e dalla pubblicazione della mia edizione critica del Barbiere di Siviglia, che fece scalpore trattandosi della prima assoluta di un’opera lirica del grande repertorio italiano supportata da una metodologia ad hoc. In quell’occasione non potei trattenermi dal rimproverare a Celletti certi duri giudizi su alcuni cantanti che amavo (definiti adepti della scuola del muggito). Invece di risentirsi, Rodolfo mi invitò ad ascoltare alcune registrazioni discografiche dove figuravano gli interpreti da me magnificati seguendo, partitura alla mano, la linea del canto e le indicazioni dinamiche che l’accompagnavano. Rivivo tangibile lo sgomento che mi pervase quando dovetti constatare che pochissime delle indicazioni interpretative richieste dal compositore (nell’occasione il Verdi della trilogia romantica: Trovatore, Traviata, Rigoletto) venivano rispettate dai miei ammirati cantanti: note prescritte pianissimo diventate mezzoforte o forte; forcelle di crescendo e diminuendo neppure accennate; smorzandi risolti in senso contrario, messe di voce, trilli, portamenti regolarmente ignorati; passi d’agilità sommariamente spianati o resi con informi gorgoglii; legati cantabili trasformati in declamati stentorei; indicazioni di sottovoce risolte a gola spiegata. Da allora presi a considerare il canto lirico con ottica diversa, scoprendo l’emozione dei toni smorzati, il fascino del legato morbido e fervoroso, la carica intima del suono sussurrato, l’eleganza aristocratica del fraseggio chiaroscurato, lo stupore dei lunghi fiati sostenuti e portati, l’efficacia di un acuto che eviti il grido, la perentorietà di un passo d’agilità realizzato alla perfezione mediante un legato espressivo, fonte di luce e brio.

Quando Paolo Grassi mi incaricò di vegliare sugli sviluppi di un festival belcantistico di cui aveva propiziato la nascita a Martina Franca, sua città natale, dovetti constatare, in qualità di concertatore e direttore d’orchestra, quanto fosse improbo per i vocalisti conseguire obiettivi estranei alla cultura melodrammatica imperante. Dopo l’esperienza di un primo anno abbandonai il campo, giacché non in grado di garantire quella congruità che Grassi aveva chiesto di certificare. Tornai a Martina Franca qualche anno dopo, come direttore musicale del Festival della Valle d’Itria al fianco di Celletti, direttore artistico. In comunione d’intenti creammo il primo festival italiano dedicato al belcanto, dove venivano attuati in percentuale apprezzabile i postulati del canto ornato, sorto nelle splendide stagioni rinascimentale e barocca e teorizzato in superbi trattati e in illuminanti prefazioni ai testi musicali che la finezza letteraria di Celletti e l’esercizio operativo del suo direttore musicale traducevano e interpretavano, anche discostandosi dalla prassi seguita dagli assertori di scelte storicistiche dogmaticamente conclamate.

Il festival di Martina Franca catalizzò l’interesse di quanti andavano discoprendo la ricchezza del patrimonio belcantistico e divenne un centro d’attrazione e di studio per tanti giovani talenti che trovavano in quel repertorio l’occasione per esprimere la propria personalità d’artista.

L’attrattiva di quegli spettacoli non sorgeva soltanto dalla restituzione irreprensibile del coefficiente vocale; altri aspetti dell’etica belcantistica vi trovavano adeguata attenzione: il rispetto filologico del testo e delle strutture, e dunque la loro intangibilità; l’adozione nella prassi esecutiva di pertinenti variazioni e cadenze, affidate al ponderato arbitrio dell’interprete; il ricorso a pagine alternative o sostitutive venute a far parte di una tradizione autenticata dal documentato consenso del compositore; il rispetto di un universo sonoro alieno dagli eccessi del tardo Romanticismo e del Verismo, quindi del grido viscerale e della sottolineatura superflua. Nacquero interpreti in grado di corrispondere con proprietà alle domande del repertorio belcantistico, taluni assurti alla qualifica divistica che da sempre compete ai grandi cantanti del genere, quali Mariella Devia, Anna Caterina Antonacci, Daniela Dessì, Lucia Aliberti, Martine Dupuy, Sara Mingardo, Ruggero Raimondi, Simone Alaimo, Pietro Spagnoli, e un largo etc. La concertazione musicale teneva conto della rilettura belcantistica, e opere quali I Capuleti e i Montecchi, I Puritani di Bellini, il Fra Diavolo di Auber, L’incoronazione di Poppea di Monteverdi suonarono inusuali per il recupero di pagine da sempre tagliate, per la presenza dell’ornamentazione vocale ignorata dalla tradizione tardo-ottocentesca e per il taglio virtuosistico impresso all’intero spettacolo.

In quegli stessi anni trascorrevo un mese estivo nella città di Pesaro, lavorando l’intera giornata alla Fondazione Rossini con Philip Gossett e Bruno Cagli, componenti insieme a me il Comitato Editoriale che stava avviando l’immane progetto di pubblicazione in edizione critica di tutte le opere di Gioachino Rossini (i due primi titoli della collana furono La gazza ladra, a cura di Alberto Zedda, nel 1979 e Tancredi, a cura di Philip Gossett, nel 1984).

L’approfondimento ermeneutico iniziato a Milano con l’avventura dei Cadetti della Scala e proseguito a Martina Franca, dove di Rossini avevo diretto la prima esecuzione moderna dell’Adelaide di Borgogna e la prima integrale della Semiramide, ha molto giovato, nella fase di decrittazione dei manoscritti originali propedeutica alla stesura di irreprensibili partiture d’orchestra e dei relativi apparati critici, a ritrovare lo spirito delle origini. La riflessione congiunta del musicista militante e del musicologo ha consentito di ridisegnare una prassi esecutiva fededegna, capace di discernere i dati fondanti di una tradizione storicista da conservare e insieme di aprirsi agli apporti migliorativi introdotti dalla successiva esperienza esecutiva.

Nelle sale della Fondazione ho incontrato per la prima volta Gianfranco Mariotti, l’allora assessore alla cultura del Comune di Pesaro che stava battendosi con caparbietà per dar vita a un festival dedicato al grande concittadino. Stavo consultando l’autografo della Donna del lago, l’opera che insieme a Tancredi mi aveva convinto a proclamare ai quattro venti che il Rossini autore di melodrammi seri sarebbe stato un giorno considerato più importante dell’acclamato compositore d’opere giocose. Gianfranco notò la mia emozione, prese a sfogliare il manoscritto e ne risultò altrettanto toccato: fu subito chiaro che la malia che aveva eccitato il nostro sentire avrebbe influenzato il futuro.

Nel 1980 il Festival rossiniano si inaugurò con La gazza ladra, diretta da Gianandrea Gavazzeni nella fiammante edizione critica della Fondazione Rossini; il programma di quel primo impaginato era stato tracciato da Bruno Cagli, anche regista del successivo Inganno felice da me diretto. Concluso il Festival, Mariotti mi sequestrò nella sua ospitale dimora affascinandomi con conversazioni farcite di spiritosi calembours e di eclettici squarci di poesia recitati a memoria e acutamente chiosati, restituendomi la libertà solo quando si convinse di avermi guadagnato interamente alla sua causa.

Tanto seppe stregarmi, con alate disquisizioni sulla bellezza delle Marche e sul lascito rinascimentale dei suoi antichi reggitori, sodali del cortegiano Castiglione, da indurmi a contrattare su due piedi l’acquisto di una dimora, prossima alla sua, che ancora divido con amici e parenti nel periodo del Festival pesarese. In quelle giornate di costruttive meditazioni si consolidò la linea strategica da imprimere al nuovo Festival, convenendo che la manifestazione dovesse mirare all’eccellenza, puntando sulla qualità; che la programmazione venisse indirizzata principalmente sulle opere di genere serio del catalogo rossiniano, sconosciute e inconoscibili perché mai pubblicate; che la nascitura istituzione avrebbe adottato l’inedita formula di festival musicologico, promovendo spettacoli che accomunassero la verifica della ricerca teorica alla pratica della sperimentazione teatrale, attraverso l’organica collaborazione con la Fondazione Rossini; che il Rossini Opera Festival avrebbe cercato una sinergia con altri soggetti aventi titolo per partecipare al progetto: la storica casa editrice Ricordi e la Casa discografica di stato Fonit Cetra.

L’entusiasmo di quegl’incontri accese la certezza che il neonato Festival sarebbe arrivato a forgiare una riveduta immagine del grande Pesarese, consentendo alla sua musica di riconquistare nei teatri del mondo il prestigio che aveva goduto nella prima metà del diciannovesimo secolo. Nei ragionamenti che portarono a fissare l’indirizzo interpretativo da dare agli spettacoli pesaresi, l’esperienza vissuta alla Scala e a Martina Franca fu preziosa consigliera. Rossini, eleggendo per il suo teatro il codice vocale del virtuosismo belcantistico, condotto a uno sviluppo estremo e non migliorabile, ha incentrato sulla prestazione dei suoi interpreti vocali il carico principale della trasmissione del messaggio artistico. Nessuna eccelsa direzione d’orchestra, nessuna mirabolante messa in scena, nessuna prestigiosa compagine orchestrale e corale potrebbe assicurare il successo a un capolavoro rossiniano quando sul palcoscenico si avvicendassero cantanti inadatti a rispettare il codice belcantistico.

Senza la capacità di trasfondere nelle figure anodine di quel canto virtuosistico i colori e i guizzi generati da una tecnica di illimitate ricchezza e fantasia, nessuna voce, fosse pure la più bella al mondo, sarebbe arrivata a trasformare quelle figurazioni gelide e convenzionali in emozioni palpitanti, in gesti teatrali cogenti. Da qui la convinzione che il Festival pesarese dovesse configurarsi come festival vocale per eccellenza, e il conseguente obbligo di puntare su compagnie irreprensibili, non soltanto soppesando le qualità del singolo artista, bensì curando il difficile equilibrio fra le diverse voci e la loro pertinenza con la gestualità suggerita dalla lucida scrittura rossiniana.

In quegli anni andava di gran moda la restaurazione storicamente documentata di prassi esecutive antiche per riportare alla luce opere dimenticate, moda alimentata anche dall’interessato mercato discografico, e non mancavano vivaci assertori dell’opportunità di creare caste di specialisti che riportassero in auge l’uso degli acuti in falsettone per i tenori, o il doppio registro per i contralti e i bassi-baritoni, per non dire di altre bizzarrie, tipo la pratica nevrotica dell’agilità aspirata o la ricerca di suoni fissi o a soffietto. Un discorso affine riguardava anche l’uso di strumenti d’epoca: una importante casa discografica si offrì di finanziare il Festival, registrando tutti gli spettacoli, a condizione di impiegare come orchestra un noto complesso di strumenti antichi. Non fu facile resistere a tentazioni che avrebbero facilitato l’avvio della manifestazione, risolvendo molti problemi economici e organizzativi, ma la frequentazione degli autografi rossiniani aveva nettamente delineato l’immagine di un compositore ben più avanti del suo tempo, aperto a un futuro non immaginabile, non certo nostalgico del passato.

La scrittura strumentale, di straordinarie brillantezza e rilevanza tecnica, prefigurava strumenti ancora da inventare piuttosto che la regressione a quelli che, stando alle recensioni dei suoi spettacoli, tenevano dietro con fatica alle indiavolate strette dei suoi pezzi concertati. La collabor zione con gli studiosi della Fondazione Rossini, curatori delle partiture che il Festival andava rappresentando secondo cadenze stabilite di comune accordo, ha determinato una tipologia di concertazione dello spettacolo inedita e feconda, riassumibile nel binomio ricerca e sperimentazione. Durante le prove musicali, i curatori verificano la congruità delle scelte effettuate nella fase di ricerca e preparazione della partitura, nello stesso tempo vigilando che il rigore scientifico che ha orientato il loro lavoro non venga attenuato dalle scelte del direttore d’orchestra, del regista e dei cantanti.

La direzione del Festival, a sua volta, entro il quadro delle rigorose premesse musicologiche, concesse agli artisti scritturati la più ampia libertà interpretativa. Messa a fuoco con esattezza la figura del cantante rossiniano, si trattava ora di identificarlo fra i vocalisti in circolazione, selezione complicata dalla decisione di incentrare la programmazione sui capolavori della produzione napoletana, la più fervida, ma anche quella più impegnativa. Il repertorio lirico degli anni Ottanta era ancora sostanzialmente circoscritto a quello in auge nella prima metà del secolo: lo tsunami Callas aveva appena smosso le coscienze degli organizzatori musicali e scalfito le consuetudini, e quando veniva programmata un’opera belcantistica si ricorreva pervicacemente agli stessi cantanti scritturati per Verdi e Puccini, introducendo bizzarri aggiustamenti semplificatori, oltre a tagli e contaminazioni di tale insensatezza da stravolgere irrimediabilmente il senso del messaggio artistico.

Le scuole di canto italiane, affidate per lo più a cantanti fuori servizio, ignoravano perfino l’esistenza di questo repertorio: interpellati sul significato del termine belcanto, molti Maestri di canto avrebbero risposto candidamente trattarsi di un sinonimo di canto bello, interpretato da una bella voce, come quelle di Pavarotti, di Mirella Freni, di Giulietta Simionato. L’insegnamento era indirizzato prima di tutto a creare una voce forte, omogenea, di emissione gradevole e di buona proiezione, ottenuta spingendo la colonna del fiato nei corretti risuonatori facciali, la cosiddetta messa in maschera. Il problema dell’agilità non li toccava minimamente, perché il repertorio che avevano cantato e quello che ancora si ascoltava nei teatri d’opera, di agilità ne aveva poca o niente, e quella sopravissuta veniva risolta con abborracciata approssimazione, evitando di porre a rischio squillo e potenza per rispettare quisquiglie, a loro dire, ininfluenti. Quanto alle prescrizioni di trillo, messa di voce, filature, smorzandi, sottovoce, pianissimi e simili leziosità, considerati artifici sopravissuti a un passato dimenticato, esse neppure venivano prese in considerazione. Rarissime erano le esecuzioni stilisticamente appropriate di opere belcantistiche, quasi tutte confidate alla documentazione discografica di operazioni promosse da direttori e cantanti fuori dal giro. Fecero scalpore un rossiniano Assedio di Corinto diretto da Thomas Schippers (non esente da discusse scelte musicologiche, giacché si trattava di un pastiche che frammischiava arbitrariamente la versione napoletana dell’opera, Maometto II, e il suo rifacimento parigino, Le siège de Corinthe) con Marilyn Horne e Beverly Sills, e una Semiramide, ancora con la Horne e Joan Sutherland, diretta da Bonynge, che conteneva la metà della musica originaria. Destarono enorme risonanza gli emozionanti spettacoli rossiniani diretti da Claudio Abbado alla Scala, Barbiere di Siviglia, Italiana in Algeri e Cenerentola (regista Jean-Pierre Ponnelle), che svelarono la sublime leggerezza della follia rossiniana e segnarono un punto importante a favore delle nuovissime edizioni critiche che Abbado aveva espressamente richiesto.

Nel tracciare la programmazione dei primi anni, non fu facile rispettare i criteri artistici auspicati: pochi vocalisti erano in grado di rispondere alle richieste del belcantismo rossiniano, e fra questi rarissimi erano gli italiani. Di fatto, i cantanti attivi nelle prime stagioni del Rossini Opera Festival provenivano in gran parte dall’area anglosassone, dove la mai accantonata frequentazione di autori come Händel e Purcell obbligava gli interpreti a coltivare, almeno in certa misura, il canto d’agilità e di garbo dei virtuosi barocchi. Esercitando la direzione d’orchestra principalmente fuori d’Italia, mi imbattevo più facilmente in cantanti con attitudini atte a coprire i difficili ruoli rossiniani: nei teatri di repertorio della Germania postbellica circolavano personaggi come Montserrat Caballé, Marilyn Horne, Chris Merritt, Rockwell Blake, Bruce Ford, Francisco Araiza, Samuel Ramey, Boris Martinovich che, uniti agli “italiani” Katia Ricciarelli, Lella Cuberli, Cecilia Gasdia, Daniela Dessì, Gloria Banditelli, Mariella Devia, Luciana Serra, Anna Caterina Antonacci, Giusy Devinu, Lucia Aliberti, Nuccia Focile, Luciana D’Intino, Lucia Valentini Terrani, Bernadette Manca di Nissa, Gloria Scalchi, Carmen Gonzalez, Elena Zilio, Susanna Anselmi, Mario Bolognesi, Giuseppe Morino, Dano Raffanti, Paolo Barbacini, Pietro Bottazzo, Ugo Benelli, William Matteuzzi, Luca Canonici, Bruno Beccaria, Maurizio Comencini, Aldo Bertolo, Alberto Rinaldi, Sesto Bruscantini, Enrico Fissore, Alessandro Corbelli, Simone Alaimo, Leo Nucci, Enzo Dara, Ruggiero Raimondi, Claudio Desderi, Bruno Praticò, Alfonso Antoniozzi, Roberto Coviello, Natale De Carolis, Ferruccio Furlanetto, Paolo Gavanelli, Pietro Spagnoli, Lucio Gallo, Giovanni Furlanetto, e agli “stranieri” Maria Angeles Peters, Gianna Rolandi, June Anderson, Mariana Nicolesco, Susan Dunn, Felicity Palmer, Teresa Berganza, Martine Dupuy, Susanne Mentzer, Margarita Zimmermann, Raquel Pierotti, Martha Senn, Patricia Schuman, Kathleen Kuhlmann, Raul Gimenez, Dalmacio Gonzalez, Eduardo Gimenez, Robert Gambill, Thomas Moser, David Kuebler, Philip Langridge, Patrick Raftery, Giorgio Surjan, Nicolas Rivenq, costituirono il primo gruppo di artisti che nel giro di un decennio di attività assicurarono al Rossini Opera Festival una posizione privilegiata nel panorama delle maggiori istituzioni europee. Alcuni di essi tornarono a Pesaro per molti anni consecutivi, costruendo e consolidando l’immagine divistica che li ha resi popolari: inobliabili le contese fra i tenori Chris Merritt e Rockwell Blake, rinnovanti i fasti della leggendaria coppia sancarliana Nozzari-David, e quelle fra le divine Katia Ricciarelli e Lucia Valentina Terrani o Montserrat Caballé e Marilyn Horne.

Nonostante la crescita esponenziale del consenso, io e Mariotti (divenuto nel frattempo sovrintendente dell’ente autonomo Rof) continuavamo a interrogarci sulla perfettibilità di scelte che arrivassero a dipanare l’inattingibile traguardo del lascito rossiniano, di primo acchito edonisticamente appagante, ma presto reso inquietante dall’inconciliabile distanza fra l’apparente semplicità del discorso in atto e l’abissale complessità dell’assunto poetico sottaciuto.

Nel 1988, dopo una recita trionfale di Otello, seduti a ripensare lo spettacolo di cui avremmo dovuto andare fieri, nel silenzio oscuro della notte ci sorprese la malinconia dell’insoddisfazione, il rovello del dubbio, l’ansia di nuove scoperte. I nostri interpreti erano stati all’altezza della loro reputazione, avevano cantato benissimo e il pubblico li aveva osannati, ma quella sera Mariotti e io ci siamo resi conto che il loro belcantismo gladiatorio e autoreferenziale, anche se superbamente condotto, non sarebbe bastato a svelare il fascino di un linguaggio idealizzato e immateriale, leggero come un’ingannevole promessa di felicità, pregnante come l’ebbrezza della poesia. Brusche impennate, sottolineature eccessive, ostentazioni di acrobatismo; fiati artatamente modulati, respiri rumorosamente singhiozzati, cadenze artificiosamente elaborate; enfatiche posture, petti gonfiati, gestualità retorica mai avrebbero potuto cogliere sino in fondo la semplicità e l’eleganza di un discorso teatrale raffinato e limpidamente tracciato. Condividemmo il convincimento che tutto quello che richiamava l’effetto esibito e conduceva a un consenso plateale non avrebbe dovuto far parte del bagaglio professionale dell’ideale interprete rossiniano. Avremmo voluto che il belcantismo di Rossini arrivasse a cancellare l’artificiosità d’origine per ritrovare l’espressione naturale dei linguaggi compiuti, come avviene con lo Shakespeare di Carmelo Bene e Laurence Olivier, col Dante di Roberto Benigni, col Goethe di Giorgio Strehler, col Ruzzante di Dario Fo. Ma dove trovare cantanti disposti a sperimentare una linea interpretativa che presupponeva il superamento di un traguardo già di per sé impervio? Quale scuola avrebbe potuto indirizzarli a quella chimera? Quale esperienza orientarli a catturarla? Nei primi anni del Festival avevamo bandito un concorso per voci belcantistiche, abortito presto per mancanza di concorrenti adeguati, e la delusione aveva confermato la difficoltà di trovare alternative allo star system del quale cominciavamo ad avvertire i limiti. Fu allora che Mariotti avanzò l’idea di creare in seno al Festival un’Accademia che imprendesse il compito di plasmare interpreti capaci di trasformare, attraverso l’incomparabile lezione rossiniana, la manna celeste del belcantismo in pane quotidiano. Accolsi con entusiasmo la proposta e rivisitai le esperienze del passato per elaborare un progetto didattico che, partendo dai problemi specifici della vocalità, si estendesse a un ventaglio di discipline, indispensabili a forgiare un interprete chiamato a misurarsi con una fenomenologia lontana da quelle praticate nella contemporaneità.

L’Accademia Rossiniana si rivolse a cantanti, direttori d’orchestra, musicologi, operatori culturali, appassionati d’ogni sorta per diffondere il verbo rossiniano che Gianfranco Mariotti, Alberto Zedda e gli studiosi della Fondazione Rossini venivano applicando agli spettacoli pesaresi, contribuendo a diffondere, con lo spirito aperto dei ricercatori, l’immagine che del rossinismo avevano metabolizzato, lungi dalla pretesa che il loro credo dovesse diventare la sola fede praticabile. La prolusione inaugurale del grande precursore Fedele D’Amico, purtroppo letta in sua assenza perché già malato, confermò questo laico indirizzo, ribadito nelle lezioni successive di Rodolfo Celletti, Alessandro Baricco, Azio Corghi, Giovanni Carli Ballola, Bruno Cagli, Francesco Degrada, Paolo Fabbri, Gianfranco Mariotti, Lorenzo Arruga, Luigi Ferrari, Sergio Segalini, Marco Beghelli, Sonia Arienta, Renato Meucci, indirizzate a illuminare l’opera e la personalità del grande Pesarese, ma anche ad aprire ai giovani una prospettiva culturale a tutto campo, di norma trascurata nella formazione accademica di un cantante. I registi attivi al Festival, Pier Luigi Pizzi, Luca Ronconi, Mario Martone, Michael Hampe, Jean-Pierre Ponnelle, Graham Vick, Maurizio Scaparro, Luigi Squarzina, Hugo De Ana, Dario Fo, Yannis Kokkos, Emilio Sagi, Pier’Alli, Roberto De Simone, Moni Ovadia, Massimo Castri, Luca De Filippo, Stefano Monti, Guido De Monticelli, Francesco Esposito, Elisabetta Courir, Dieter Kaegi, Lluís Pasqual, Serena Sinigaglia, Daniele Abbado, Damiano Michieletto, Jean-Louis Martinoty, Rosetta Cucchi, Giovanni Agostinucci, Giancarlo Del Monaco, Giorgio Barberio Corsetti, Davide Livermore, Sonja Frisell, hanno spiegato ai discepoli dell’Accademia quanto indispensabile fosse al giorno d’oggi acquisire una tecnica di recitazione dove la parola, in qualunque idioma pronunciata, suonasse percepibile, al fine di liberarne il potenziale espressivo, e come la gestualità dovesse adeguarsi a ogni esigenza stilistica, realistica e no, senza arrendersi alla complicazione di richieste inconsuete destinate ad aumentare la difficoltà esecutiva di passaggi vocali impervi. Musicologi del calibro di Philip Gossett, Will Crutchfield, Richard Amner, Stefano Castelvecchi, Michael Aspinall, Federico Agostinelli, Patricia Brauner, Marco Mencoboni, Ilaria Narici, hanno introdotto il tema essenziale della filologia musicale applicata, chiarendo il senso delle edizioni critiche, strumento di lavoro imperdibile per recuperare prassi esecutive interrotte da secoli, e fomentando l’interesse per la ricerca dell’autenticità e del rispetto rigoroso di testo, forme, strutture; prescrizioni interpretative; tradizioni vincolanti, quali il ricorso a fioriture, cadenze e variazioni; od opportune, quali trasposizioni, sostituzioni, accomodi, puntature, acuti, corone. L’otorinolaringoiatra Franco Fussi e il fisioterapista Frank Musarra hanno spiegato l’importanza di conoscere e controllare gli organi impegnati nella riproduzione del suono e sottolineato i vantaggi di un’educazione fisica che favorisca la respirazione e armonizzi il movimento, senza dimenticare l’attenzione a un’alimentazione adeguata agli sforzi richiesti dalla professione. Una miriade di altri docenti, fra loro Henning Brockhaus, Guido Levi, Nanà Cecchi, Luca Oblach, ha guidato i frequentatori dei corsi a sviluppare una propria autonoma coscienza in discipline che incidono fortemente sulla prestazione del teatrante, quali quelle riguardanti il trucco, l’illuministica e il costume, accessori che l’artista deve metabolizzare e assumere perché arrivino a contribuire con tratto personale alla definizione del personaggio da interpretare. L’Accademia Rossiniana è rivolta principalmente agli artisti di canto, articolati in effettivi e uditori, ma ai corsi hanno partecipato anche direttori d’orchestra, musicologi, studiosi interessati a Rossini. Talune sedute vengono anche liberamente aperte al pubblico, che può seguire così l’evoluzione dei discepoli e apprendere nozioni utili a una miglior comprensione del discorso rossiniano e quindi a un proficuo ascolto delle opere programmate dal Rof.

Mi feci carico degli aspetti teorici e pratici connessi alla vocalità, concentrando le mie lezioni su ogni aspetto dell’interpretazione rossiniana, coadiuvato dai validi e appassionati collaboratori Anna Bigliardi e Lanfranco Marcelletti, insieme ai pianisti in servizio durante il lavoro di allestimento degli spettacoli del Festival, come Mirca Rosciani. All’Accademia Rossiniana non si insegna a cantare, giacché si presume che chi concorre a partecipare alla selezione degli allevi effettivi sia in possesso di una tecnica vocale di livello professionale. Si analizzano e si perfezionano i risultati di questa tecnica, riferibile alla capacità di controllare l’emissione di modo che ogni suono corrisponda a un preciso ordine partito dal cervello, e si educa a porre questo risultato al servizio di una data immagine da accompagnare alla parola, affinché la frase cantata, pur costituita dalle più anodine figure del simbolismo asemantico, acquisti preciso significato espressivo. L’impegno a conferire un senso riconoscibile alle figurazioni del belcantismo rossiniano, partendo dal valore onomatopeico della parola e dall’inequivocabile suggerimento della situazione teatrale, costituisce l’aspetto rilevante del mio insegnamento, quello che in poche settimane di lavoro trasforma il cantare generico di tanti discepoli in una pertinente interpretazione rossiniana. Si tratta di mettere in moto un costante fervore di fantasia, di stimolare l’immaginazione, cancellando ogni traccia di passività e pigrizia, di sostituire la gamma infinita dei colori alla monotonia del grigio, di opporre la pulsione vitale della gioia al bolso arrancare della routine.

Partita da poco la nuova attività, fui avvicinato da un cortese signore che con toni semplici e privi di retorica si dichiarò entusiasta del mio entusiasmo e si offrì di sovvenzionare l’Accademia senza nulla chiedere in cambio: si tratta di un gentiluomo inglese, meritatamente nominato baronetto dalla sua regina, Sir Peter Moores, titolare di una omonima Fondazione che ha profuso fortune a sostegno della cultura e dell’arte. A tutt’oggi Sir Peter coltiva la passione rossiniana contratta a Pesaro, contribuendo tangibilmente allo sviluppo dell’attività accademica.

Nei primi anni d’esistenza, i corsi dell’Accademia si concludevano con un concerto di arie, duetti e concertati rossiniani, accompagnati al pianoforte da Anna Bigliardi, al quale prendevano parte i migliori allievi. I risultati furono subito rilevanti, tanto da indurre i responsabili a includere alcuni dei giovani laureati nella programmazione del Festival, promuovendo una spirale virtuosa che giovava a entrambe le istituzioni consorelle: l’Accademia attirava concorrenti sempre meglio qualificati, consapevoli che un positivo risultato avrebbe accelerato l’ambita scrittura al Rossini Opera Festival, divenuta ormai autorevole attestazione di congruità belcantistica; il Festival avviava il ricambio delle sue co pagini artistiche sostituendo gradualmente gli specialisti dello star system con nuove leve di vocalisti capaci di superare le difficoltà del virtuosismo acrobatico senza necessariamente iscriversi fra i frequentatori esclusivi del repertorio rossiniano. Lo sviluppo di questo processo portò dapprima ad allargare il tradizionale concerto finale, accostando alla sequenza di arie e duetti un’opera completa o riassunta in larghe porzioni, e, a partire dal nuovo millennio, ad aggiungere al concerto finale con pianoforte la realizzazione scenica di un’opera completa con orchestra, rappresentata nel contesto stesso del Festival nel filone titolato Festival Giovane. Si tratta sempre della stessa opera, Il viaggio a Reims, allestita in orario diurno in aggiunta alla consueta programmazione lirica. Nonostante questa sovrapposizione di spettacoli, ogni anno vi assiste un foltissimo pubblico di affezionati e di esperti che vengono a stabilire confronti e a valutare i protagonisti di domani, consci che a breve termine ritroveranno nel cartellone del Festival alcuni dei giovani gratificati dal loro consenso. Il viaggio a Reims ritorna ogni anno nella stessa produzione per più ragioni: è la sola opera di Rossini che allinea molti ruoli protagonistici, consentendo a più allievi di mettersi in gioco; richiede prestazione di grande difficoltà, ma di contenuta estensione, riducendo la responsabilità di interpreti necessariamente immaturi; si avvale di una acclamatissima regia di Emilio Sagi – ripresa in sua assenza da Elisabetta Courir – che ha la prerogativa di tenere in scena dal principio alla fine gran parte dei partecipanti, consentendo anche agli interpreti di ruoli secondari di consumare un’esauriente esperienza di palcoscenico. Con la programmazione del Viaggio a Reims, l’Accademia Rossiniana ha introdotto un nuovo capitolo di studio, riservato ai giovani direttori d’orchestra invitati a dirigere lo spettacolo conclusivo dei corsi. Coetanei dei cantanti che guideranno alla prova d’esordio, i giovani direttori selezionati hanno supplito alla carenza d’esperienza frequentando dall’inizio il corso didattico al loro fianco, con loro maturando giorno dopo giorno lo spettacolo sotto la mia guida. Si sono dimostrati tutti all’altezza del compito e tutti hanno intrapreso, dopo l’esordio pesarese, una cospicua carriera, come si può constatare dall’elenco sotto riportato. Dalla loro variegata provenienza si evince anche il proposito del Rossini Opera Festival di ottemperare al compito istituzionale di promuovere la conoscenza dell’opera rossiniana, diffondendone la prassi esecutiva anche in ambiti culturali lontani:

edizione 2001 Antonino Fogliani, classe 1976, italiano
edizione 2002 Pietro Rizzo, classe 1973, italiano
edizione 2003 Christopher Franklin, classe 1968, statunitense
edizione 2004 Lanfranco Marcelletti, classe 1964, brasiliano
edizione 2005 Daniele Belardinelli, classe 1967, italiano
edizione 2006 José Miguel Perez-Sierra, classe 1981, spagnolo
edizione 2007 Ryuichiro Sonoda, classe 1976, giapponese
edizione 2008 Denis Vlasenko, classe 1981, russo
edizione 2009 Trisdee Na Patalung, classe 1986, tailandese
edizione 2010 Andrea Battistoni, classe 1987, italiano
edizione 2011 Yi-Chen Lin, classe 1985, taiwanese
edizione 2012 Piero Lombardi, classe 1989, spagnolo
edizione 2013 Daniel Smith, classe 1981, australiano

L’esperienza dell’Accademia Rossiniana di Pesaro, compendio di precedenti avventure similari, ha giocato un ruolo importante nel dipanarsi della mia vita d’artista. Ho sempre amato l’insegnamento: promuove il contatto fra le generazioni e favorisce la ricerca del nuovo e la sintonia con lo spirito del tempo. Perché questo nuovo rispondesse davvero allo Zeitgeist e non al capriccio di mode passeggere, all’infatuazione di futili successi, ho cercato di confrontarlo costantemente col lascito della cultura classica.

Lo studio della lingua greca mi ha dimostrato che vocaboli e verbi possono assumere significati diversi, anche opposti, secondo il contesto in cui vengono adoperati; quello della lingua latina, al contrario, ha insegnato che, partendo dal concetto basico contenuto nella radice etimologica greca, chi parla e chi scrive ha il dovere di arrivare a una definizione precisa e sintetica dei termini che adopera. Dal greco ho derivato la capacità di variare con infinite sfumature un testo da interpretare, dunque la libertà di adattarlo allo spirito del tempo; dal latino l’esigenza di ancorarlo a una verità filologica fededegna, al rispetto di una lezione criticamente ripensata. Dal primo filone è nato il musicista militante: il direttore d’orchestra, il programmatore, il direttore artistico, il docente; dal secondo il musicologo: il saggista, l’autore del libro Divagazioni rossiniane pubblicato da Ricordi (Milano 2012), il curatore delle prime edizioni critiche di opere liriche del grande repertorio italiano, propedeutiche alla riscoperta di un Gioachino Rossini travisato e all’affermarsi del Rossini Opera Festival e dell’Accademia Rossiniana di Pesaro. L’attitudine a valutare il quotidiano con lo sguardo del filosofo ha sviluppato una costante attenzione ai problemi della società civile e alle leggi che ne determinano i comportamenti, esaminati con disincanto, ma anche con l’assillo di comprendere e giustificare, rivisitando certezze e convinzioni. Da giovinetto coltivavo frequentazioni adulte; da adulto ho dedicato ai giovani gran parte della mia attività: attraverso ogni tipo di didattica, esercitata in conservatori, in università, in innumerevoli masterclasses tenute nell’universo mondo; promuovendo manifestazioni incentrate sul protagonismo di talenti in cui credevo; aprendo ai giovani artisti percorsi che la pigrizia borghese riservava a presenze consolidate. Per questo ho coltivato l’utopia dell’avanguardia, per questo mi sono schierato con la minoranza del dissenso, anche se non sempre con quella del dissenso organizzato, che arriva a istituzionalizzarsi e a conseguire posizioni di potere ripaganti chi lo esercita: il dissenso silenzioso, difficile da praticare nell’ombra dell’anonimato e nel rispetto delle regole.

Sul finire del 1991 mi fu offerta la direzione artistica del Teatro Carlo Felice di Genova, alfine risorto dalle macerie a cui l’avevano ridotto i bombardamenti alleati e inaugurato in apertura delle celebrazioni del cinquecentesimo anniversario del viaggio di Cristoforo Colombo che aperse la strada al nuovo mondo. Declinai cortesemente l’invito: non ero interessato ad allargare l’attività di ideatore culturale, attività che da anni svolgevo con soddisfazione al Rossini Opera Festival di Pesaro, anche perché desideravo mantenere viva la militanza musicale esercitando il mestiere di direttore d’orchestra. Fui indotto a mutare atteggiamento da varie considerazioni, esposte con fervida e intelligente insistenza: il nuovo Carlo Felice, attrezzato con i sofisticati meccanismi dei palcoscenici mobili che consentono un aumento esponenziale della produttività e il miglioramento qualitativo degli spettacoli, si attestava come il più moderno teatro lirico italiano del momento; la società civile genovese aveva accolto con eccitata soddisfazione la riapertura del suo storico teatro e garantiva piena disponibilità a sostenere iniziative che contribuissero a riportarlo in prima linea; i contatti esplorativi con la stampa, i musicologi, gli operatori musicali di altre importanti istituzioni cittadine confermavano il desiderio di appoggiare senza riserve il proposito di profittare dell’occasione eccezionale per creare un organismo distinto da quelli catalogabili in tanti enti lirici, dove un sistema ingessato e obsoleto mostrava evidenti i prodromi della crisi oggi drammaticamente esplosa; gli spazi e le risorse del nuovo teatro avrebbero consentito di impiantare un centro di formazione simile a quello operante a Pesaro, al fine di creare un modello aggiornato di artista lirico, inserito in un nucleo stabile da affiancare agli artisti contrattati di volta in volta.

Considerai precondizione irrinunciabile, per conseguire un rinnovamento davvero efficace, quella di aver al fianco un direttore musicale autorevole disposto a condividere il progetto e puntai su un giovane direttore che stava imponendo all’estero la rare qualità di interprete eclettico e moderno, apprezzato per una professionalità di grande caratura, per l’apertura intellettuale e per la signorilità del tratto: Fabio Luisi. Incontrai le prime difficoltà con i rappresentanti dei vari organismi sindacali: Luisi, che aveva da poco diretto gli spettacoli inaugurali delle Colombiadi, era sicuramente bravissimo, ma aveva il torto di essere italiano e genovese. Ritentai con altro giovane talento emergente, da poco nominato direttore stabile dell’Orchestra di Santa Cecilia, Daniele Gatti. Non era stato facile convincerlo ad accettare la mia proposta; soprattutto era stato complicato ottenere il via libera dal suo personal manager, il gran capo della Columbia Ronald Wilford, che riteneva il posto inadeguato allo sviluppo della sua carriera, da lui preconizzata di primo piano. Occorse perseveranza per convincerlo che sarebbe risultato utile per un giovane direttore italiano consolidare un’esperienza lirica in un teatro che cercava una linea non convenzionale. Anche per la candidatura di Gatti dovetti sostenere un confronto, corretto ma non incoraggiante, con rappresentanti sindacali che appoggiavano la nomina di un direttore francese gradito all’orchestra. Cominciai a temere che il mio disegno di rinnovamento non incontrasse il consenso sperato, anche perché in teatro prese a serpeggiare un’allarmata apprensione riguardo a finanziamenti pubblici e privati che, terminata l’euforia delle celebrazioni colombiane, sfumavano nell’incertezza. Avvertivo anche un calo di disponibilità, un allentamento di tensione nell’impegno dei referenti cittadini che mi avevano incitato al cimento e temetti di perdere gli alleati necessari a vincere le resistenze dell’establishment.

Durante la mia breve permanenza a Genova avevo incontrato Carlo Fontana, sovrintendente del Teatro alla Scala, che mi aveva garbatamente rimproverato di non averlo avvertito dell’intenzione di dedicarmi a tempo pieno alla direzione artistica di un ente lirico, pur essendo notorio che il teatro milanese stava rivedendo l’assetto del suo vertice dirigenziale. Gli dissi che non era la poltrona di direttore artistico che mi aveva attirato a Genova, bensì la prospettiva di realizzare un sogno nato dalla positiva esperienza sviluppata a Pesaro con la proficua sinergia fra il Rossini Opera Festival e la sua Accademia Rossiniana. Dissi ancora che da quell’esperienza avevo ricavato la convinzione che la presenza di un gruppo stabile di artisti provvisti di una formazione accademica interdisciplinare avrebbe fortemente arricchito l’immagine del teatro, accrescendone la potenzialità produttiva e la sfiziosità delle proposte, aggiungendo una tipologia di spettacoli dal costo contenuto, spazianti dal Barocco alla musica contemporanea, che non potevano trovare pertinente collocazione nella programmazione principale data la vastità della sala e l’esiguità degli organici strumentali richiesti. Ciò avrebbe anche consentito di elaborare una politica culturale qualificante, in grado di elevare il tratto identitario dell’istituzione. L’introduzione di discipline integrative a quelle musicali avrebbe poi offerto al teatro l’occasione di intrecciare una rete di collaborazioni permanenti con personalità della cultura cittadina, critici, storici, letterati, architetti, compositori, opinionisti, intellettuali d’ogni genere, ristabilendo quel rapporto fra teatro e società civile che un tempo aveva reso il tempio lirico luogo privilegiato di incontri e sede di eventi capitali.

Fontana giudicò il progetto una proposta valida anche per il Teatro alla Scala e mi invitò a lasciare Genova, dove le speranze di successo stavano assottigliandosi, per realizzarlo a Milano. Ne informò il direttore musicale, Riccardo Muti, al quale devo immensa gratitudine per aver appoggiato la mia candidatura, anche conoscendo i rapporti di devota amicizia con Claudio Abbado (secondo l’imbecillità mediatica irriducibile rivale) e dunque fidando nella lealtà della mia collaborazione.

Al Consiglio di Amministrazione del Teatro, Fontana motivò la proposta della mia candidatura con questo ragionamento: “quale è stata l’iniziativa di maggior successo negli ultimi anni? Senza dubbio il Rossini Opera Festival. Chi è stato il responsabile musicale di quella istituzione? Alberto Zedda. Dunque candido Zedda alla direzione artistica della Scala”.

Nelle interviste che accompagnarono la mia nomina, non mancai di sottolineare che il principale obbiettivo che mi ero posto sarebbe stato proprio quello di dotare il teatro milanese di un sofisticato centro di studio e sperimentazione, fucina di una schiera di giovani talenti da impiegare per aumentare la produttività a costi sostenibili, dando nel contempo un forte indirizzo culturale con l’invitare il fior fiore dell’intellighenzia cittadina a guidarne le iniziative. La mia concezione della direzione artistica di un grande teatro lirico prendeva le mosse dalla lezione di Francesco Siciliani, musicista di razza oltreché eccellente uomo di cultura: come lui avrei speso la gran parte del mio tempo non negli uffici della segreteria artistica, ma nelle sale di prova e di spettacolo, seguendo e controllando giorno dopo giorno il progredire della preparazione artistica, attento a cogliere il minimo segnale che potesse guidare a interventi migliorativi o a fiutare una latente situazione di pericolo, da eliminare prima che si manifestasse apertamente.

Carlo Fontana mi conosceva dai tempi dell’amicizia con suo padre, Ciro, e non si sorprese quando gli confessai la scarsa attitudine a gestire la burocrazia quotidiana. Per concorrere a smaltire l’ordinario, accolse la mia proposta di creare l’inedita figura del vice-direttore artistico, affidando l’incarico a Gianni Tangucci, già collaboratore alla direzione artistica. Quando fosse decollato l’auspicato progetto destinato a resuscitare in nuova veste i Cadetti della Scala, ovverosia quel gruppo stabile di giovani artisti chiamati a un’attività di studio e di spettacolo che doveva attestare un nuovo modello di spettacolo, il mio incarico avrebbe acquisito la pienezza operativa. In una serie di vivacissimi incontri, avevo concordato con un Giorgio Strehler entusiasmato un largo programma di spettacoli mozartiani e goldoniani, da tenersi al Piccolo Teatro con la sua regia e i giovani della progettata Accademia scaligera, sperimentando una originale formula operativa a mezza strada fra il teatro lirico di repertorio e il teatro di prosa, che prevedeva un numero inconsueto di rappresentazioni da destinare a un pubblico non necessariamente melomane. Condizione preliminare perché tutto questo si realizzasse era ovviamente la possibilità di contare su uno spazio multiuso, esterno al teatro, dove ospitare i corsi accademici, le prove e gli spettacoli lirici. Anche su questo Fontana fu rassicurante: il problema sarebbe stato affrontato contestualmente alla messa in cantiere delle opere di trasformazione del palcoscenico, già approvate, che avrebbero cambiato radicalmente il sistema di produzione degli spettacoli, al momento ancora imperniato sulla dislocazione delle prove di regia nell’incomodo spazio periferico dell’Abanella.

Tutto sembrava avviato nel modo migliore, quando l’imprevedibile venne a scompaginare drammaticamente le carte. La mia nomina a direttore artistico avvenne il 30 marzo 1992; pochi giorni prima, il 17 febbraio, l’arresto di Mario Chiesa, accusato di malversazione a danno del Pio Albergo Trivulzio, aveva dato avvio a Tangentopoli, la stagione degli scandali di corruzione che ha destabilizzato la prima Repubblica e sconvolto la Milano socialista. Ogni iniziativa rimase paralizzata, ogni decisione importante rimandata. L’Accademia stentò a concretarsi per l’irreperibilità della sede promessa; progetti importanti avviati con Karlheinz Stockhausen, Bob Wilson, Balthus, Giorgio Strehler, vennero accantonati; il rinvio sine die della riforma strutturale del palcoscenico aggiunse nuove delusioni. Irrealizzabili gli obiettivi che avevano motivato il mio incarico, la funzione di direttore artistico aveva perso per me ogni ragion d’essere. La lettera di dimissioni del 13 ottobre 1993 recitava: “Non sono venuto alla Scala per occupare un prestigioso posto vacante, ma per fare alcune cose che credo importanti perché riguardano il futuro, lo sviluppo, il nuovo. […] Il direttore artistico dovrebbe anzitutto assolvere il compito di assicurare al teatro il necessario ricambio di idee e l’opportuno aggiornamento artistico e musicologico. I progetti che intendevo realizzare rappresentano il naturale proseguimento di iniziative che mi hanno visto protagonista lungo tutto il corso dell’esistenza e che avrebbero trovato alla Scala lo sviluppo ideale”.

Non fu quella della Scala l’ultima gemma sbocciata dalla prolifica matrice dell’Accademia Rossiniana pesarese. Nel 2009 Helga Schmidt, intendente del Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia, mi incaricò di avviare e dirigere un Centro di Perfezionamento intitolato a Placido Domingo. L’imponenza del complesso monumentale creato da Santiago Calatrava, dove innumerevoli aule di studio dotate di pianoforte, sale di prova d’ogni dimensione e un elegante palcoscenico modernamente attrezzato erano a nostra completa disposizione, mi riaccese la speranza di riuscire finalmente a realizzare l’Accademia a lungo inseguita. Vi lavorai due stagioni, contando su un valoroso gruppo di giovani cantanti, pianisti e Maestri collaboratori, ma l’iniziativa non decollò perché la signora Schmidt, a differenza di quanto accade a Pesaro, volle rigorosamente separata l’attività del teatro d’opera da quella del Centro di Perfezionamento. La diffidenza nei confronti dei giovani allievi, all’inizio anche giustificata, e il tiepido interesse della dirigenza del Palau de les Arts a utilizzarli nella programmazione degli spettacoli ridusse il numero e la qualità delle domande di partecipazione ai corsi, e le manifestazioni autonomamente prodotte dal Centro, pur surrogate da un’orchestra di prim’ordine, non sorpassarono il buon livello accademico.

L’excursus attraverso le varie intraprese discese dalla lezione rossiniana valga a riaffermare la singolarità dell’istituzione pesarese, ma soprattutto a constatare quanti vantaggi possa trarre una gestione lungimirante e coraggiosa dalla collaborazione con organismi votati alla ricerca di nuove mete. Oggi l’Accademia Rossiniana contribuisce sensibilmente al successo del Festival, assicurandogli un costante ricambio di fresche energie e moltiplicando la diffusione della sua immagine nel mondo.

Alberto Zedda
Direttore dell’Accademia Rossiniana
Direttore artistico del Rossini Opera Festival

   In programma Accademia Rossiniana XXV, ROF

© Zedda-Vázquez