Oltre la filologia

L’operazione critica non può arrestarsi all’aspetto filologico: non meno importante è il riesame di forme e strutture ripensate nel più ampio contesto storico che le ha viste nascere, la verifica di consuetudini interpretative consegnate alle generazioni successive.

Il lessico di Rossini si fonda su brevi melodie, articolate in un ambito armonico semplice e chiaro, con intervalli di lineare compostezza. La modulazione avviene sovente al di fuori della linea melodica, a frase conclusa, e perciò stesso acquista rilievo e autonomia. La semplicità dell’impianto armonico di base consente l’uso iterativo di microstrutture che rendono il discorso subito percepibile e facile da ritenere: ripetute in geometriche rifrangenze come le immagini di un caleidoscopio, costituiscono la caratteristica più geniale e novatrice della sua musica e determinano scansioni ritmiche di irresistibile vitalità.

La microstruttura portante del discorso musicale è insieme melodica e ritmica, talché è spesso difficile distinguere in essa le due componenti. Per questa ragione il ritmo di Rossini non è paragonabile a quello di nessun altro musicista. Vocaboli musicali così facili da identificare grazie alla duplice caratterizzazione ritmico-melodica e alla loro ripetitività per aderire ai significati drammatici, per esprimere gli “affetti” richiesti dal testo poetico necessitano di colori vivissimi.

Vi provvede il grande strumentatore, che nell’impiego dei legni lanciati ad affermare autonomie sconosciute tocca vertici, anche tecnici, insuperati. Questi fiati solistici sono integrati da un tessuto d’archi nervoso e scattante o teneramente avvolgente, mai relegato alla funzione di riempitivo o di semplice sostegno. Strumentazione che all’epoca doveva risultare difficilissima per i modesti esecutori delle orchestre d’opera e poco d’aiuto agli interpreti vocali che nei discutibili raddoppi di Bellini o Donizetti trovavano ben altro appoggio.

Vi provvede ancora il grande vocalista che elabora un acrobatismo canoro inedito, adatto a piegarsi alle formule rapide e nervose del suo comporre. Il cantare rossiniano, tanto diverso da ogni altro, richiede un virtuosismo, uno scatto interiore, una continua e vivificante illuminazione che lo situano nella zona più impervia dell’esperienza belcantistica. Il ricorso a innumerevoli ripetizioni, nei Da capo ma anche all’interno dei singoli frammenti, impone un impiego estensivo di variazioni e fiorettature per aumentare le possibilità espressive dell’interprete, che in un contesto di tanta asperità è obbligato a cambiare note e figurazioni per mutare colore e intensità di voce.

Su tutti questi elementi trionfa l’amalgama razionale dell’elaborazione, il laico esplicarsi di una volontà ordinatrice, di un mestiere superbamente conquistato, di una professionalità somma. Rossini, consapevole che le tante novità del suo linguaggio potessero disorientare un ascoltatore abituato a più blande sollecitazioni, costringe i guizzi della fantasia entro ferree costruzioni di segno classico. Queste strutture vengono recuperate dal passato ma portate a una compiutezza e a un respiro che le innalza a dignità sconosciuta al precedente melodramma italiano. Alle forme consuete egli aggiunge la perfezione aurea delle proporzioni, la capacità di costruire immense arcate con sequenze perfette di pezzi chiusi dove gli affetti raccontati trovano un rapporto ideale con i contenuti drammatici. Anche le più viete formule d’uso trovano misura sapiente e appropriata, dall’esposizione orchestrale alle cadenze, dai collegamenti per i Da capo agli interventi del coro.
È questa aurea proportio che rende problematici certi tagli, specie internamente ai pezzi chiusi.

I tagli tradizionali si dimostrano in molti casi lesivi di strutture geometricamente armoniose, negativamente influenti sul logico sviluppo dell’azione, depauperativi di momenti espressivi. Ragioni analoghe hanno indotto a reintegrare la struttura originaria in due atti: dividere in due il primo, come si usava un tempo, significa spezzare la simmetria di una costruzione rigorosa concepita come un solo grande arco che poggia su pilastri di pari grandiosità, l’Introduzione e il Finale primo, con nel mezzo una successione di arie, dove personaggi vengono presentati in sapiente progressione. La riapertura di certi tagli serve a restituire una logica al succedersi degli eventi, al punto da creare una paradossale impressione di maggior brevità. Il ricorso a forme consacrate ha contribuito a far considerare Rossini un sorpassato ma gli esiti espressivi del suo linguaggio lo collocano ben più vicino a noi. Assorbita e in parte superata la temperie romantica e verista, attenuata l’urgenza di gridare i sentimenti e di celebrarli collettivamente, si comincia oggi a gustare l’autentico senso drammatico, la tensione spirituale, la fascinante ambiguità, l’aspirazione a far vibrare corde più alte, contenuti nelle opere di Rossini.

Nel riconsiderare le tradizioni interpretative, l’indispensabile recupero della prassi belcantistica comporta la riutilizzazione di formule e procedimenti validi a definire l’essenza della vocalità rossiniana. Sono dunque da reintegrare cadenze, variazioni, artifici che meglio fanno risaltare il rapporto fra il canto e i valori musicali della partitura, sempre rapportati allo stile scarno e asciutto del comporre. L’orchestra può così ritrovare respiro e dimensioni cameristiche, conformandosi a un palcoscenico che cerca nell’eleganza e nel brillio le ragioni della sua affermazione, rinunciando agli attributi di forza e agli accidentati diagrammi espressivi del canto tardo-romantico.

Alberto Zedda

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