Modi del comporre spontiniano

Piero Zufi, scenografia per La Vestale

Dopo le infuocate polemiche alimentate dai seguaci di Gluck, il canto lirico francese si era indirizzato su percorsi diversi da quello coltivato in Italia. A Parigi gli interpreti veniva­no lodati più per le qualità di attori drammatici che per quelle di squisiti vocalisti. Il vigore dell’espressione, la forza del gesto facevano premio sulla bellezza dell’emissione e sulle pre­ziosità della tecnica.

L’unico spettacolo considerato degno di varcare le soglie dell’Académie era la tragédie lyrique, vale a dire la trasposizione musicale della tragedia classica riportata in auge da Racine e Voltaire, non l’opera comica o la commedia disimpegnata.

Spontini portò una ventata di novità proponendo uno stile musicale elevato, non ignaro della lezione gluckiana, temperato da una cantabilità che restituisce alla melodia vocale il primato dell’espressione. Non si ritrovano in questo compositore l’edonismo elegante, l’en­fatica rifinitura della frase melodica, la preziosa e spesso inutile ornamentazione dei belcan­tisti italiani. Il canto si fa più attento ai valori espressivi della parola, ricerca una passionali­tà autentica, consona alle nuove richieste drammaturgiche, anche se ancora pretende il vo­calista di razza.

Non ci si può accostare a La Vestale con le attese riservate all’ascolto di un’opera roman­tica o verista. Le storie raccontate nelle tragédies lyriques assomigliano poco a quelle della vita e i sentimenti descritti conoscono l’iperbole dell’assoluto, l’esaltazione del sublime, ma non il comune sentire della gente. Il conflitto tra razionale e irrazionale non recepisce le ombre dell’inconscio e si risolve col trionfo della virtù e della giustizia.

Anche il discorso musicale è originale. Spontini persegue una linea vocale ininterrotta, senza fratture, che crea una tensione espressiva affascinante. Il culmine viene raggiunto con un crescendo emotivo ottenuto per accumulo, progressivamente aumentando la concitazio­ne ritmica e agogica del materiale impiegato, sino a raggiungere un parossismo fervido e coinvolgente.

Egli tende a ridurre i confini delle forme chiuse collegando un brano all’altro, senza solu­zione di continuità, come si evince da precise indicazioni che suggeriscono all’interprete di non creare indugi nell’attaccare il brano successivo.

L’orchestrazione non ricerca effetti fini a se stessi o coloristici: essa è costantemente nu­trita, nobile, sapiente, motivata e coglie i traguardi dell’espressione attraverso la coerenza e la congruità piuttosto che sollecitando immagini onomatopeiche o suscitando moti di sor­presa.

Le arie della Vestale sono brevi e concise, con rari ritornelli: solo la grande scena di Giulia del II atto raggiunge e supera dimensioni cherubiniane. Le melodie non colpiscono per la intrinseca bellezza ma per la loro nobiltà, la pertinenza, l’efficacia, la proprietà espressiva.

Le arie, così succinte, così armonicamente e melodicamente poco sviluppate, prese a sé stanti, non si impongono: il loro valore drammatico emerge dal contesto in cui sono inserite, proprio come avverrà per Wagner e Berlioz. Le modulazioni più audaci e inattese non si trovano nei pezzi chiusi ma nei recitativi e in quei grumi di emozioni che vi si incontrano frequentemente: spezzoni di canto, non più formule di recitativo ma non ancora frasi abbastanza elaborate da assumere i contorni dell’aria.

Spontini non concede pausa alle tensioni emotive sino a che non sia conseguito il culmine risolutivo. Egli accosta continuamente nuove idee, passando dall’una all’altra senza curarsi di svilupparle. Anche da ciò risulta un canto appassionato e intenso. La melodia evita in genere i grandi salti cari allo stile epico e preferisce muoversi per piccoli intervalli, sovente per gradi congiunti.

Lo stile declamatorio dei francesi viene temperato da una concezione strutturale che divide le arie in più sezioni distinte: ciascuna arriva a una nota acuta dalla quale si stacca una scala discendente. Le melodie di rado eccedono l’ambito di un’ottava e sovente insistono su formule che rimangono costanti per un’intera sezione, sfruttando l’effetto ossessivo dell’iterazione insistita.

Il contrasto dialettico, anche per quanto riguarda il ritmo, è provvisto da un discorso strumentale autonomo e particolarmente ricco ancorché basato su brevi formule ripetute. Il recitativo non è momento di riposo per il cantante, è anzi occasione di intensificazione espressiva. Esso parte da forme semplici ma si espande in grandi costruzioni, arricchito spesso da quei succosi frammenti melodici di cui si è detto.

L’ininterrotta melodia di Spontini non lascia spazio a interventi dell’orchestra sola, per cui divengono evanescenti i confini tra i pezzi chiusi e i recitativi. Passare direttamente dall’aria al recitativo e viceversa, rinunciando a suggellare il pezzo chiuso con le classiche formule cadenzanti, rinforza la tensione del discorso e si impone come invenzione efficace e rivoluzionaria.

Spontini usa molto l’artificio della ripetizione, tanto nella frase vocale quanto nei frammenti strumentali, ma si preoccupa di eludere la simmetria che ne potrebbe derivare accostando spunti di lunghezza diversa.

Un sintetico esame dell’opera potrà meglio chiarire le caratteristiche della singolare vocalità spontiniana.

Atto primo

Ouverture

Un lunghissimo unisono dell’orchestra prepara un episodio di straordinaria espressività. I ribattuti dei legni che seguono la frase melodica propongono un’inquietante asimmetria ritmica, sospendendo l’angosciosa domanda sino al Presto-Assai agitato. Il discorso alterna spunti del grande sinfonismo d’oltralpe a tratti più tipicamente operistici, ottenendo un risultato composito, anche disorientante. La lunga perorazione finale sottintende un crescendo che porta alle brucianti cadenze conclusive: situazioni analoghe daranno origine al celebre “crescendo rossiniano”.

Scena prima

La musica scioglie le ombre della notte e Licinio canta le sue pene: “La nuit achève sa carriere”. L’aria pone subito il problema dell’identità vocale del personaggio. Il canto sembra pensato per un tenore molto centrale, ma la nota più acuta, fa3, quarta sopra del do centrale, non gli consente di sfogare una voce in precedenza situata nella zona grave del fa2, ottava inferiore. Un baritono cantabile appare più adatto a rendere la turbata confessione d’amore.

Scena seconda

Ecco un primo esempio di declamato disteso e significante, lontano dalla sciatteria di tanti recitativi d’opera seria. Anche Cinna rivela una natura vocale ambigua. La tessitura dell’aria “Dans le sein d’un ami fidèle” è all’incirca quella stessa di Licinio, con qualche punta più acuta nel recitativo che la precede ma con note ancora più gravi nell’aria (re1). Anche Cinna si direbbe un baritono cantabile. Soltanto in seguito si chiarirà l’opportunità di affidare il ruolo a un tenore, dato che, quando i due cantano insieme, è a lui che viene costantemente affidata la parte più acuta.

Il carattere misterioso e segreto di questa ricognizione al tempio di Vesta giustifica il tono sommesso e controllato che la tessitura impone a un tenore. L’aria è nobile e luminosa quanto quella di Licinio era notturna e sommessa. La melodia si muove per intervalli di seconda, raramente interrotta da un salto di terza nei punti nodali. La frase si snoda quietamente verso l’acuto per attingere il punto focale e di nuovo ripiegare sul terreno di partenza.

Si avverte un melodizzare italianeggiante, esplicitato anche dalla semplicità del percorso armonico, ma la mancanza di fioriture e una scrittura sillabica o semisillabica (mai più di due note per una sillaba) richiamano lo stile severo del canto francese. Sorprende la densità dell’accompagnamento orchestrale, ricco di dotte figurazioni degne della grande scuola classica del sinfonismo europeo.

Scena terza (Hymne du matin)

La musica che annuncia l’entrata delle vestali è quanto di meno religioso si possa pensare: la anima una ventata di vita, un’energia positiva e pagana che ben accompagna il sorgere del sole. Si avverte un melodizzare sconosciuto all’operista italiano, a metà strada fra musica descrittiva e sinfonismo puro.

Nel coro “Fille du ciel” aleggia una calma serenità impreziosita da inattesi cambiamenti ritmici, piccoli ma significativi.

Anche nel canto della Gran Vestale non v’è traccia di misticismo: gli spunti ritmici derivano dal coro ma il cambio repentino dell’accompagnamento orchestrale la promuove protagonista.

Giulia entra senza un accordo che ne sottolinei l’arrivo, ma il canto disegna subito il personaggio: dolce, tenero, palpitante. La melodia di Giulia si leva purissima sul coro a chiarire che Spontini vuole per questo personaggio una voce in grado di emergere e di dominare ma anche capace di una cantabilità spiegata e distesa.

Scena quarta

Il tono della Gran Vestale muta di colpo dopo l’uscita delle sacerdotesse, mentre l’orchestra si riempie d’affanno. L’aria “L’amour est un monstre” è una rabbiosa denuncia contro le lusinghe d’amore ma anche la confessione di segrete frustrazioni. Anche qui il declamato sillabico lascia il posto a un più espressivo procedere semisillabico.

Si richiede una vocalità di grande forza drammatica, non ignara di un virtuosismo belcantistico in grado di scandire rapide figurazioni presaghe del contralto rossiniano. L’Andante espressivo “Ô ma fille” chiede larga cantabilità e forte accento in un registro assai grave. Un’aria difficile, condotta al solito senza respiro, che molto pretende senza molto concedere.

La riposta di Giulia, intensa e commossa, sollecita la corda del melodista italiano suggerendogli un canto a larghe falcate che mette in rilievo la bellezza vocale della protagonista.

Scena quinta

Rimasta sola, Giulia affronta la sua prima grande aria “J’ entendrai de ta voix”: un Allegro non tanto che esige un canto di forza e agilità, nello stile epico della tragédie lyrique, seguito da un Allegro agitato assai che recepisce la frammentarietà del declamato, spinto al limite del grido da una tessitura impervia, centrata sul passaggio superiore (mi3, fa diesis3, sol3, la3) e da una Marche triomphale che porta al sublime l’ansia di rivedere l’amato Licinio.

Scena sesta

Il grande Finale Primo si apre con un coro di popolo opposto al coro delle vestali, poco italico nella solennità aulica, certamente un tributo alle imperiali esigenze di Napoleone.

Il recitativo di Licinio esalta la presentazione di un duce vittorioso. Il canto si leva su scarni accordi degli archi creando un tangibile contrasto col precedente ripieno del Tutti.

Il coro che segue isola efficacemente la voce femminile delle sacerdotesse da quella dei guerrieri e dei sacerdoti, ciascun gruppo con andamento differenziato. La frase con cui Giulia si indirizza a Licinio, mentre gli posa in capo il serto, volutamente generica, maschera l’imbarazzo (Spontini precisa: “con voce stentata”).

Un coro generale suggella la festa, ma il tono non ha più la trionfalità dell’inizio, e il giubilo sembra avvolto in una cappa di preoccupata aspettativa che le danze con cui si chiude l’atto tenteranno di disperdere e sciogliere in letizia. Ritrovata la serenità, l’atto può concludersi in gloria con la ripresa dell’impetuoso coro che ha dato inizio al Finale.

Atto secondo

Di gran lunga il più bello, il secondo atto è una miniera di tesori musicali.

Scena prima

La scena si apre con un “Hymne du soir” che è il pendant dell'”Inno al mattino” del primo atto. La dolce e carezzevole melodia dei secondi violini (raddoppiata da corni e fagotti e contrappuntata dal crepitare dei violini primi e dal mormorare dei violoncelli e dei contrabbassi) stabilisce felicemente il colore ambientale, carico di profumi e di attese. Il coro delle vestali, a mezza voce, aggiunge una tenerezza intrisa di malinconia. L’esortazione della Gran Vestale a Giulia di custodire degnamente il sacro fuoco allontanando tentazioni d’amore punite con la morte è un tipico esempio di arioso, declamato con accenti di grande dignità: senza giungere alle dimensioni di un’aria, questi incisi melodici costituiscono nodi espressivi essenziali.

Scena seconda

Rimasta sola, Giulia dà vita a una delle più grandi scene del repertorio lirico-drammatico. Una lunga introduzione orchestrale, dominata dalla presenza evocatrice del corno solista, prepara l’implorazione alla dea, “Toi que j’implore”. Il tormento di tener fede a un voto religioso che, avverso a una promessa d’amore tornata realizzabile, trasforma la preghiera in supplica che impegna la voce in prolungate e insistite espansioni nella faticosa zona subacuta, in particolare sul la bemolle4. Queste grida disperate lasciano una stanchezza profonda nell’animo: quando viene ripreso il tema iniziale, esso appare ancor più commovente, svuotato dalla sofferenza, mutato in pianto disorientato. Una pagina di bellezza senza pari, un viaggio sconvolgente nei sentimenti profondi. D’improvviso il demone del desiderio si ridesta e trova accenti violenti in un recitativo Presto e Prestissimo, sottolineato da un’orchestra fremente.

L’aria “Impitoyables Dieux!”, che segue senza che se ne avverta l’inizio, offre alla protagonista occasione per un excursus drammatico senza eguali: non solo per la tensione provocata dalla lotta fra dovere e sentimento, ma per la tessitura durissima che senza un attimo di respiro costringe il soprano a esporsi continuamente nella zona critica del passaggio superiore.

Anche qui Spontini rinuncia ai grandi salti, agli intervalli improvvisi coi quali tanti ricer-cano l’effetto drammatico. Il canto resta basato essenzialmente sui gradi congiunti, sicché non perde mai la qualità dell’espressione intensa. Il contrasto nasce dalla contrapposizione delle varie sezioni dell’aria, non internamente alla frase melodica. Ogni sezione è impiantata sulla semplice alternanza di tonica e dominante: solo negli sviluppi l’armonia cerca soluzioni complesse e imprevedibili.

L’aria non ha sovracuti (la nota più alta è si bemolle4) ma l’insistere esasperato sulle ultime note del passaggio minaccia di trasformare in grido incomposto quello che dovrebbe restare canto classico, e di ridurre le capacità di resistenza di una protagonista che deve restare in scena senza pause sino alla fine dell’atto.

Un impressionante accordo di settima diminuita, articolato in una violenta scansione orchestrale ripetuta sei volte, sottolinea la decisione di Giulia di aprire le porte del tempio all’amato: “Viens, mortel adoré, je te donne ma vie”. All’appuntamento fatale segue un postludio quietamente sereno, come se, presa la decisione, il tumulto del cuore venisse a cessare e l’animo si predisponesse all’incontro d’amore. Dopo tutto quel fuoco, l’iterazione insistita di formule melodiche non propriamente ispirate può risultare deludente.

Scena terza

Licinio entra pronunciando soltanto il nome dell’amata: come Tristano, come Pelléas. Lo accompagnano accordi anticipatori del desiderio di Isotta. Poi l’orchestra commenta crudamente il dialogo degli amanti. Licinio rassicura Giulia con un canto disteso, “Les dieux prendront pitié”, al quale la fanciulla risponde aprendosi all’amore, “Auprès de celle qui t’adore”. Il terrore si muta in trasporti appassionati tradotti da un canto fratto e ansimante, integrato dal palpitare dell’orchestra. Le voci si riuniscono nel naturale procedere omoritmico in terza e si inseguono nell’elementare formula dell’imitazione: l’angoscia cede il passo alla felicità. L’eccitazione è tanto intensa che, quando Giulia si accorge che la fiamma sacrale è estinta, e con essa la sua speranza di vivere, la reazione è fredda e senza emozioni, mentre l’orchestra ripete stancamente un commento stupefatto, incapace di proseguire.

Scena quarta

L’Allegro agitato che precede l’arrivo di Cinna è pagina sconvolgente: al fremito nervoso dell’orchestra corrisponde un lamento disperato del canto che discende per gradi e risale improvviso per immettersi nel terzetto con naturalezza esemplare. Nel terzetto di Giulia, Licinio e Cinna le voci si inseguono in imitazione, con un’agilità semisillabica di forza, o si uniscono omoritmicamente procedendo per terza o sesta, dominate dal soprano che canta nella tessitura di massima potenza, ancora una volta costretto spaziare nell’ingrata zona del passaggio. Un forte recitativo di Licinio conduce all’entrata del coro, anch’esso impostato sull’imitazione di icastici incisi. Trombe e corni alzano squilli minacciosi sul crepitare degli archi ribattuti. In pochi istanti la nuova situazione drammaturgica è perfettamente delineata.

Scena quinta

Giulia ritrova la calma dell’eroina in un recitativo che d’improvviso riconduce la voce al registro grave, imponendole una rimarchevole duttilità.

Scena sesta

Un possente episodio corale (vi si ascoltano inediti echi fra gruppi in scena e fuori scena) introduce il recitativo dove il Gran Pontefice si oppone irosamente alla fierezza della fanciulla: “Est-ce assez d’une loi pour vaincre la nature?”. Ma il tono ribelle cede presto a una toccante implorazione, “o des infortunés déesse”, per la quale Spontini ritorna a una melodia di stampo napoletano che pretende canto morbido e legato, concedendosi anche un misurato ricorso a fioriture belcantistiche con tre o più note collegate a una sillaba. La fierezza si ridesta nel rifiuto di rivelare il nome dell’amante, provocando una furiosa reazione del Gran Pontefice (qui in grado di mostrare le qualità del basso profondo), supportato da un’orchestra ribollente di accensioni sinfoniche di grande effetto. Un poderoso concertato, antesignano dei grandi finali rossiniani, chiude l’atto con un crescendo emotivo di ostinata continuità.

Atto terzo

Scena prima

Tromboni e timpani, alternantisi coi legni in semplici accordi cadenzali, provvedono il giusto colore a una situazione che un disegno ossessivo degli archi, esacerbato da inusitati trilli di oboi e fagotti, carica di angoscia. Momento strumentale mirabile che deve avere entusiasmato Berlioz. L’agitazione si trasmette al canto di Licinio che, in un’appassionata e fremente perorazione, decide di non abbandonare Giulia alla sua sorte.

Scena seconda

Cinna gli sarà al fianco con un manipolo di fedeli. Il dialogo fra i due amici è tracciato in una tessitura così grave che un Licinio tenore troverebbe difficoltà insormontabili a superare il muro sonoro dell’orchestra. Anche Cinna, nella fervida celebrazione dell’amicizia, nobilmente generosa anche se musicalmente generica, incontra momenti critici per la tessitura grave, solo attenuati da un’orchestrazione affidata principalmente ai soli archi.

Scena terza

Un lungo recitativo, crudo e disadorno, introduce il serrato dialogo fra Licinio e il Gran Pontefice, sostenuto da un’orchestra fremente di iterazioni ritmiche e ansimante di sincopi.

Scena quarta

In un breve recitativo, affidato quasi soltanto alla voce, il Gran Pontefice rifiuta di accogliere l’esortazione dell’Aruspice a rinviare l’esecuzione di Giulia.

Scena quinta

Entra Giulia, circondata dalle compagne, dai sacerdoti e dal popolo, al ritmo di un’op-primente marcia funebre sulla quale si leva implorante il canto delle vestali. L’ispirazione ritrova il momento alto e Giulia può intonare un dolcissimo addio alle amiche, “Adieu, mes tendres soeurs”, e una preghiera alla Gran Vestale perché le conceda il perdono. Poi il pensiero torna all’amato Licinio, cui dedica un’aria di intensa emozione, “Toi que je laisse sur la terre”, dove nuovamente si richiede alla protagonista un registro centro-grave di particolare consistenza, in aggiunta a un centro-acuto di grande morbidezza e fascino.

Scena sesta

Irrompe Licinio coi suoi fidi, introdotti da una perentoria sortita di tutta l’orchestra. Al momento di iniziare la lotta, il cielo si oscura e un coro generale di possente articolazione esplicita il terrore suscitato dall’intervento celeste. Il Gran Pontefice non può che prender atto del perdono accordato dalla dea all’ancella colpevole e consentire a Licinio e a Cinna di condurre in salvo Giulia.

Il canto di gioia che leva il coro, accompagnato dal suono dell’arpa, e il commiato di Giulia, trapuntato dal gioco degli archi “staccati”, tessono un lieto fine di particolare grazia e levità, suggellato dalle voci felici dei due amanti. Il ballo finale mima le nozze di Giulia e Licinio con i giochi e le danze del culto di Venere Ericina.

Alberto Zedda

   In programma di sala Teatro alla Scala

© Zedda-Vázquez