Lo stravagante Equivoco stravagante

 

L’equivoco stravagante, produzione di Emilio Sagi. ROF 2004

Bologna, sede di una delle più antiche università d’Europa, è nota per uno spirito goliardico divertito e grassoccio che dai tanti studenti che popolano la città nel periodo scolare è passato per contagio ai suoi abitanti, come attesta una tradizione letteraria consolidata (si pensi al poema eroicomico La secchia rapita, di Alessandro Tassoni, o alla commedia madrigalesca L’Amfiparnaso, posta in musica da Orazio Vecchi). É quindi facilmente immaginabile in quale atmosfera sia maturato il progetto di un’opera comica composta da un gaudioso Gioachino Rossini diciannovenne su libretto di Gaetano Gasbarri, altro personaggio arrischiato, cultore di immagini letterarie a doppio senso adombrate sotto stravaganti metafore mitologiche, fiorentino di nascita ma in quegli anni attivo in Bologna.

Per Rossini, che si trovava a Bologna per assolvere il ruolo di Maestro al cembalo e Direttore di Coro nella stagione lirica autunnale del 1811 al Teatro del Corso, l’invito ad allestire L’equivoco stravagante costituì la prima occasione di misurarsi con un corposo melodramma in due atti, dopo il debutto avvenuto l’anno precedente al veneziano teatro San Moisè con La cambiale di matrimonio, la più breve delle cinque farse da lui composte. Rossini aveva già messo mano a un melodramma in due atti, Demetrio e Polibio, ma l’opera, rappresentata anni dopo, era stata composta a pezzi e bocconi, aria dopo aria, per compiacere la famiglia amica dei Mombelli quando ancor non aveva intrapreso l’attività professionale senza quasi conoscere l’intero sviluppo della trama, inventata giorno dopo giorno dalla stessa padrona di casa, come egli stesso racconterà più tardi .

Deve essersi trattato di un incarico dell’ultimo momento, giacché nel cartellone che annunciava “due opere comiche” per la stagione di quell’anno, soltanto una, il Ser Marcantonio di Stefano Pavesi, vi figurava con titolo e autore, mentre per la seconda la formula “da decidersi” avvertiva che la scelta era ancora in corso. Questo dato, indizio di eccezionale urgenza anche in un’epoca dove i tempi brevi erano la regola, può giustificare l’abborracciamento di un libretto che alterna immagini spiritose ad altre banali e volgarucce e di una partitura che presenta pagine di accurata fattura (tutti i pezzi concertati, per esempio, e i pezzi d’insieme) e altre sbilanciate nella forma e disordinate nell’esposizione delle idee musicali, pur se investite della consueta felicità inventiva.

Il libretto, farraginoso e aritmico, indugia su dettagli ininfluenti e trascura i nodi capitali: ne deriva una definizione sbilanciata dei personaggi, che alla fine risultano evanescenti e poco credibili. La vicenda è mal raccontata: basti segnalare che il tema centrale, quello dell’equivoco stravagante annunciato dal titolo, si manifesta soltanto nel secondo atto, nel corso di un lungo recitativo secco, e viene poi sviluppato in modo sommario, con manifestazioni di dubbio gusto (duetto Ernestina-Buralicchio) e trovate mimetiche di scarsa fantasia (aria finale di Ernestina vestita da soldato, che però trova nella musica l’occasione di propiziare alla primadonna un esito trionfale, talchè la sua interprete, Maria Marcolini, la pretenderà trasportata, tale e quale e nello stesso travestimento, ne La pietra del paragone).

Chiedere a un Rossini diciannovenne di porre rimedio con la sapienza della costruzione musicale agli squilibri di un tale libretto era evidentemente pretendere troppo. Tuttavia anche in questa occasione Rossini si conferma teatrante di razza, arrivando a tessere un melodramma con un capo e una coda, senza smarrirsi in una frammentazione aneddotica di gesti buffoneschi più adatti all’intermezzo comico che all’opera giocosa. La naturale predisposizione a costruire architetture armoniose e di largo respiro si manifesta appieno nei pezzi concertati: l’Introduzione, i Finali Primo e Secondo, il Quartetto dell’Atto Primo, il Quintetto dell’Atto Secondo, pagine che nulla hanno da invidiare alle posteriori creazioni consimili e che qui diventano l’ossatura portante di un discorso altrimenti sfilacciato e vago.

Lo confermano il godimento dell’ascoltatore, costantemente indotto a un sorriso divertito, e la successiva fortuna di molti spunti trasposti, identici o leggermente modificati, in tante creazioni rossiniane di primo livello: oltre alle molte trasmigrate nella Pietra del paragone, ritroviamo pagine di quest’opera in La scala di seta, Il turco in Italia, Ciro in Babilonia, L’inganno felice, Le nozze di Teti e Peleo, L’Italiana in Algeri, Tancredi…. Questa messe di autoimprestiti, oltre alla buona lega del materiale musicale profuso nell’Equivoco stravagante, attesta che Rossini non si faceva la minima illusione sulla possibilità di sopravvivenza di quest’opera dopo le tre fortunose recite bolognesi, vuoi per lo scombinato soggetto che gli aveva procurato grane con la censura, vuoi per un risultato artistico che certamente non aveva soddisfatto le ambizioni di chi era destinato a diventare il più importante operista dell’epoca.

Il protagonista maschile, Gamberotto, si presenta, inusualmente già nell’Introduzione, con un’aria “Mentre stavo a testa ritta” dal contenuto così insulso e generico (vorrebbe essere un’iperbole comica, come spesso avviene nella presentazione di personaggi buffi, dal Podestà de La finta giardiniera di Mozart al Don Magnifico della rossiniana Cenerentola!) che neppure l’inesauribile fantasia del pesarese riesce a conferirgli il credito di personaggio principale della storia.

Sorte non migliore capita al deuteragonista Buralicchio, pur se la cavatina di sortita “Occhietti miei vezzosi” si avvale di un tema caro a Rossini, che lo ricicla da La cambiale di matrimonio e lo riutilizzerà nel Turco in Italia. Gamberotto e Buralicchio accendono il primo dei tanti duelli fra bassi che diverranno una costante in tutte le successive opere comiche e semiserie di Rossini; come avverrà in seguito, la vocalità loro assegnata, che spazia dal sillabato monosillabico a difficili passi d’agilità equamente distribuiti nei vari registri e dal canto spianato a quello di carattere, pretende interpreti di vaglia. E come sempre uno dei due ruoli (in questo caso quello di Buralicchio), insiste principalmente nel registro centro-acuto che diverrà appannaggio del baritono, mentre l’altro richiede un autentico basso dotato d’ogni risorsa tecnica e vocale.

Gamberotto, padre ambizioso e villano arricchito, teso come tutti i suoi pari a trovare per la diletta figlia un marito degno della nuova condizione sociale, acquista spessore dal frequente comparire in scena in situazioni che lo costringono a interpretare stati d’animo di varia natura, mentre Buralicchio, esangue e presuntuoso pretendente, ha poche occasioni per arricchire una figura destinata a rimanere generica. Dopo la presentazione, i due bassi si uniscono in uno spassoso duettino, antesignano di memorabili appuntamenti buffi, che, pur nei toni caricati indotti dal greve testo di Gasbarri, raggiunge momenti di irresistibile comicità; mirabile dimostrazione del potere trasfigurante della musica quando maneggiata da un illuminato. A Gamberotto Rossini assegna un’altra importante aria del primo atto “Parla, favella”, presenti Buralicchio e Ernestina come pertichini, e una terza nel secondo “Il mio germe che di Pallade”, scelta che contribuisce a sbilanciare l’equilibrio drammaturgico del personaggio rispetto a quello di Buralicchio.

Tocca ai due giovani, Ermanno, tenace innamorato destinato a vincere, e Ernestina, malinconica vittima di un mal d’amore che troverà nell’ardente corteggiatore la medicina per guarire, conferire all’opera la vivacità e il brio che ne assicurano il successo.

In questo compito vengono aiutati da Rosalia e Frontino, una coppia di spiritosi e intelligenti valletti che completano il canonico organico stabilito dalla tradizione dell’opera buffa e che qui si accreditano come prototipi esemplari di ruoli complementari di rilievo. A loro Rossini destina due deliziose arie di sorbetto: nel primo atto quella di Rosalia “Quel furbarel d’amore”; nel secondo quella di Frontino “Vedrai fra poco nascere”, che aggiungono importanza al costante confrontarsi coi protagonisti.

Frontino è tenore di carattere, di voce centrale, cui si richiedono esimie doti di recitazione per interpretare i lunghi e significativi recitativi che gli ha assegnato il librettista. Rosalia presenta il solito dilemma posto da molti ruoli affidati da Rossini alle seconde donne: verrà meglio reso da un soprano di consistente spessore o da un mezzosoprano acuto? La tradizione insegna che la seconda donna rossiniana dovrebbe essere un soprano, ma la tessitura del ruolo assai bassa, invita a cercare anche altre soluzioni.

A Ermanno, amoroso d’antologia, toccano alcune delle melodie più sincere e ispirate di Rossini, esposte già a partire dall’Introduzione, quando il giovane si avvicina alla casa di Ernestina (di cui si è innamorato ancor prima d’incontrarla) per cercare di entrarvi con l’aiuto del di lei servitore, l’amico e complice Frontino. Il suo ardore deve essere ben radicato se può resistere all’impatto con una donna resa supponente e ridicola da una smodata passione per la letteratura e la filosofia, materie alle quali il talento naturale e l’ambiente famigliare sembrano non averla predisposta. Sono proprio i suoi romantici slanci a dare senso alla vicenda, giungendo in modo convincente a far germogliare nella fanciulla sentimenti teneri, capaci di trasformarla da macchietta caricaturale in donna vera e pugnace. A Ermanno vengono assegnate, oltre al bel arioso dell’Introduzione, due arie solistiche, entrambe inusitatamente collocate nel secondo atto. Nella prima “Sento da mille furie”, preceduta da un fremente Recitativo Strumentato, il giovane da sfogo alla disperazione per essere stato cacciato da Gamberotto e costretto così ad allontanarsi dall’amata; l’aria ha forma tripartita e per la sua larga dimensione si pone come autorevole pendente al Rondó finale di Ernestina. Nella seconda “D’un tenero ardore” , Ermanno canta a Ernestina prigioniera una tenera melodia, lontana dalle tentazioni del virtuosismo acrobatico, che contribuisce a creare nella strampalata vicenda un personaggio umano e credibile.

Il lungo e complesso ruolo di Ernestina, di puro stampo belcantistico, come si conviene all’interprete che l’ha ispirato, quella Maria Marcolini amica profonda ed estimatrice di Rossini che ritroveremo primadonna assoluta nella creazione di La pietra del paragone, L’ italiana in Algeri, Ciro in Babilonia e Sigismondo, allinea due arie di grande respiro e di impervia realizzazione. Nell’Atto Primo, Ernestina si presenta con una Cavatina con Coro “Nel cor un vuoto io provo” articolata in più sezioni faticosamente collegate fra loro (una fatica che sorprende in un autore così attento ai valori formali), ma che forse trova un fondamento di intenzionalità nel proposito di mostrare la confusione che travaglia l’animo dell’inquieta eroina, alla ricerca di non si sa che cosa; nell’Atto Secondo la diva conclude degnamente la sua parte con la già menzionata Scena e Rondò con Cori “Il periglio passò” che introduce al lieto fine con una spettacolare girandola di artifici vocali di sesto grado.

Ai due giovani amorosi sono poi riservati appuntamenti dove Rossini impone di prepotenza il sigillo del genio: nel primo atto nel Duetto “Si, trovar potete un altro”, dove Ermanno comincia a tessere la tela del corteggiamento, e nel Quartetto “Ti presento a un tempo istesso”, nel corso del quale Gamberotto introduce alla figlia Buralicchio, il promesso sposo al quale ella riserva la materia ed Ermanno, il supposto precettore di filosofia al quale destinare lo spirito; nel secondo atto nel Quintetto “Speme soave”, un numero che verrà ripreso pari pari ne La pietra del paragone.

Ernestina, il personaggio che più canta in quest’opera (ossequio alla grande Marcolini), brilla ancora in un gustoso duetto con Buralicchio “Vieni pur, a me ti accosta” dove il pretendente, caduto nell’inganno tesogli da Frontino per favorire Ermanno, prende le distanze dalla promessa sposa ritenuta un eunuco travestito. Ernestina, già conquistata dall’amore di Ermanno, dovrebbe essere ben lieta di venir sciolta da una impegno che disdegna: esibisce invece un geloso ritorno di fiamma per Buralicchio, spiegabile solo come impulsiva reazione femminile all’offesa della ripulsa.

Il ruolo tenorile di Ermanno non è particolarmente virtuosistico: gli si richiede bella e solida voce e una tecnica agile, ma non acrobatica. Per contro il ruolo di Ernestina è fra i più difficili ed emblematici che possano toccare al contralto rossiniano. Richiede un centro-grave poderoso, ma nello stesso tempo presenta insidiose escursioni in acuto; il tutto condito da passi d’agilità di forza alternati ad altri di canto dolce e spianato.

Resta da dire dei Finali Primo e Secondo. Pur non annoverandosi fra i memorabili, anche quelli dell’Equivoco stravagante si confermano pietre miliari dell’architettura rossiniana, conferendo dinamica indiavolata e prolificità inventiva all’incedere irregolare del racconto drammatico. Del librettista Gasparri si può dire tutto il male possibile, ma non disconoscere che le iperboli del suo vocabolario classico-plebeo rimandano a immagini tutt’altro che banali, specie quando si ricollegano a una mitologia ironicamente rivisitata o quando alludono a personaggi famosi della storia e della letteratura. Il suo lessico non contiene soltanto doppi sensi volgari e battute arrischiate: vi sono anche abili e gustosi giochi di parola, e il soggetto, che osa evocare il tabù dell’identità sessuale in un momento di dura restaurazione, introduce un tema inedito nella storia del melodramma.

Per un gioco del destino, è toccato a me, non ancora convertito al rossinismo, ricondurre alla luce quest’opera, sparita dai cartelloni lirici subito dopo la prima rappresentazione bolognese del 1811: accadde a Siena nel 1964, nel contesto del festival autunnale dell’Accademia Chigiana, in una libera revisione di Vito Frazzi che oggi il rossiniano Zedda contesterebbe duramente. Ho espiato la colpa involontaria nel 1999, quando al Festival di Wildbad diressi la prima edizione “filologica” dell’Equivoco stravagante, condotta sulle fonti manoscritte da Marco Beghelli e Stefano Piana per incarico della Deutsche Rossini Gesellschaft (poi anche della Fondazione Rossini), esecuzione documentata da una incisione discografica live della Naxos.

Alberto Zedda

In programma di sala del 33° Festival de Ópera de Tenerife

Eine verrückte Verwechslung– in programma di sala Deutscher Oper Berlin 2004

© Zedda-Vázquez