Le molte facce di Gioachino Rossini

Gioachino Rossini pare a prima vista compositore di facile classificazione: per la solare semplicità della sua musica, disposta in cartesiana simmetria e racchiusa in forme di classica perfezione. La ritmica nervosa e vitalistica che ne scandisce l’incedere genera energia e sollecita pulsioni, allontanando il rischio di monotonia anche quando il mestiere, pur sempre nobile, viene a sostituire l’afflato dell’ispirazione. I percorsi armonici sono di elementare essenzialità, e raramente si allontanano dal cerchio primordiale della cadenza perfetta. Le campate melodiche sono brevi, incisive e frantumate in microcellule inadatte allo sviluppo che normalmente segue l’esposizione di un tema. La rinuncia allo sviluppo preclude alla melodia la capacità di assumere molteplici sfumature e quindi di raggiungere traguardi espressivi complessi e chiaroscurati. Il ricorso a soluzioni strumentali originali e fantasiose impreziosisce il discorso con geniali invenzioni timbriche e stabilisce con la voce un dialogo di grande caratura, inedito nella tradizione dell’opera lirica italiana e imparentato con la letteratura sinfonica dei grandi classici germanici.

La vocalità, strumento primario dell’operista, deve fare i conti con un tale armamentario tecnico-creativo: Rossini sceglie senza esitazioni per i personaggi dei suoi melodrammi il campo asemantico e idealizzante del virtuosismo belcantistico, che egli porta a traguardi di sublime acrobatismo per renderlo capace di trasformare le anonime figure artificiali in cui si esprime (scale, arpeggi, roulades, salti, discese cromatiche, trilli, messe di voce, acciaccature, puntature, etc.) in gesti teatrali significanti e in emozioni cogenti.

L’elezione di una vocalità astratta, l’adozione di un canto artificiale, condiziona in modo sostanziale la drammaturgia del suo teatro, giacché preclude inesorabilmente il ricorso al comportamento realistico e all’introspezione psicologica.

Il gesto veristico, i sentimenti sofferti vengono proiettati nella sfera degli assoluti, dove vengono trasfigurati in forme allusive e simboliche. Il teatro di Rossini si distanzia dall’opera romantica e verista quanto la danza classica, basata sulla la convenzione del tutù e delle scarpette a punta, differisce dalla danza popolare o convenzionale. Ascoltare un’opera del Rossini serio nello stesso spirito e con le stesse attese con cui si affronta un melodramma di Bellini, Donizetti, Verdi, Puccini, comporta, nei migliori dei casi, l’impossibilità di coglierne il significato celato dietro il piacevole edonismo del primo livello e, nel peggiore, il rischio di esporsi alla noia di un accademismo infecondo.

Il procedimento creativo adottato da Rossini richiama quello applicato dal poeta per conferire alla parola significati altri, situandola in un contesto inusuale, liberandola dalle pastoie della logica e rendendola capace di richiamare immagini ben al di là della valenza semantica. Dotato di un materiale musicale non eccelso, lontano dalla fertilità melodica di Mozart, Schubert, Chopin, Verdi, grazie a una intelligenza e una consapevolezza critica lucidissime Rossini realizza il sogno degli alchimisti di trasformare in oro una materia povera.

Una vocalità governata dalla ragione più che dal cuore, e dunque agli antipodi di un canto destinato a suscitare e a dipingere sentimenti, condiziona pesantemente la natura drammatica del racconto teatrale. Le passioni ricreate sulla scena, i gesti che le accompagnano, le azioni e i personaggi che le devono mimare non potranno trovare modelli nella vita reale, rispecchiare i ritmi del quotidiano, richiamare figure riconoscibili nel nostro intorno. Rossini ha dovuto, dunque, inventare una drammaturgia ad hoc: non quella dei classici, perché i suoi personaggi non usano le parole e le immagini simboliche della mitologia e l’altrove dove si svolge il dramma non rimanda al Parnaso o all’Olimpo; non quella dei romantici, perché i virtuosi belcantisti mai versano lagrime liberatorie o si abbandonano agli eccessi della passione.

V’è chi definisce classiche le opere di Rossini, perché al classicismo rimandano le strutture, modellate in forme chiuse di aurea proportio. Questo aspetto, che non tocca la sostanza del messaggio, ha sviato il giudizio dei contemporanei, incapaci di intendere il contenuto rivoluzionario versato in quelle forme, che ritennero Rossini obsoleto. Se classicismo significa “equilibrio tra fantasia e realtà, tra spontaneità e riflessione, sobrietà, decoro, limpidezza, serenità, castigatezza nell’espressione artistica”, non v’è dubbio che nelle opere serie di Rossini, soprattutto quelle del filone che parte da Tancredi e prosegue con Bianca e Falliero, Adelaide di Borgogna e Semiramide, queste qualità precipue della grande arte greco-latina siano presenti in misura cospicua.

All’opposto v’è chi ritiene Rossini un operista che consapevolmente si addentra nel dominio del romanticismo, ricordando la pregnanza del legame amoroso di Tancredi e Amenaide; la magica immanenza della natura che avvolge le inquietudini dei personaggi de La donna del lago; la struggente malinconia della rinuncia all’amore di Anna per Maometto e di Elcia per Osiride; la toccante umanità dell’esortazione di Guglielmo Tell al figlio perché resti immobile quando la balestra scocchi il colpo crudele. Se romanticismo vuol dire “rivalutazione del sentimento e della fantasia, della spontaneità e della soggettività, anche nazionale e popolare”, nei confronti del razionalismo e del classicismo, certamente Rossini ha toccato ampiamente queste corde nel modo più nobile, senza cedere all’enfasi e al sentimentalismo.

Altri sono i caratteri precipui di un drammatismo operistico che, dopo due interminabili secoli – il tempo in cui le sue opere sono rimaste chiuse nei cassetti delle biblioteche –, si ripropone al disincanto del mondo contemporaneo, ricorrendo a temi e figure retoriche di assoluta attualità. Il lessico rossiniano sorprende per qualità e ricchezza: un discorso allusivo, traslato e metaforico; il ricorso frequente all’ironia, anche sottesa a situazioni di contenuto tragico; la presenza costante della follia, intesa come libera estrinsecazione di un’esperienza sensoriale sottratta alle regole della logica e proiettata nella dimensione del paradosso; un gusto graffiante per il gioco astratto e il nonsense, che si risolve in straniamenti e sospensioni ipnotiche; l’impiego della satira, anche spietata e crudele, per raffreddare le tensioni o per togliere crudezza alla banalità di situazioni risibili; il consapevole impiego di un metro drammaturgico asimmetrico e sbilanciato, che arriva a liquidare in poche battute di recitativo il matricidio di Arsace dopo oltre quattro ore di musica carica di tensioni laceranti; la presenza costante di un’ambiguità che rende possibile alla stessa musica di dipingere sentimenti opposti, il riso e il pianto, l’amore e l’odio, il dolore e la gioia, l’amicizia e il tradimento, e di passare senza smarrire il senso da un’opera ad altra, anche di soggetto diverso, come capita a molte pagine de La pietra del paragone, del Barbiere di Siviglia, o de Le Comte Ory.

Per comprendere l’originalità della narrazione rossiniana basterà soffermarsi su due opere popolarissime: Il barbiere di Siviglia e La Cenerentola, opere definite giocose, ma in realtà appartenenti a un genere di incerta definizione che utilizza in egual misura l’astrazione divertente del comico quanto la concretezza, anche tragica, del teatro serio. Entrambe raccontano inequivocabilmente storie d’amore e come tali vengono recepite con favore dal pubblico d’ogni paese. Lo spettatore ricorderà, però, che i protagonisti delle storie, Rosina e Almaviva, Cenerentola e Ramiro mai si incontrano soli sulla scena per scambiare un’effusione tenera, indirizzarsi una parola d’amore, intrecciare un dialogo che costruisca la reciproca intesa! L’indispensabile processo di conoscenza che conduce al matrimonio viene dunque svolto senza la presenza congiunta degli interessati, attraverso segni e atteggiamenti sparsi lungo il corso dell’opera che il pubblico riconosce, accosta, assembla e trasferisce mentalmente agli attori dell’avventura amorosa. Un modo indiretto di raccontare che sfiora l’assurdo e richiede al pubblico di partecipare creativamente attivando il meccanismo della memoria e della fantasia, partecipazione tanto più efficace e proficua quanto maggiori saranno il retroterra culturale di riferimento e la facoltà di evocare l’onirico.

Questo coinvolgimento, che tanto piace e stimola l’ascoltatore contemporaneo stanco delle emozioni obbligate a cui lo costringe l’operista romantico e verista, è certo ragione primaria dell’attuale Rossini-Renaissance. Si aggiunga che la libertà di intervenire sul testo (con variazioni, cadenze, puntature, artifici vocali d’ogni genere: trilli, appoggiature, acciaccature, messe di voce, etc.) pretesa dalla prassi autentica del belcantismo – una libertà che trova il limite nel gusto personale e nel rispetto di confini stilistici rigidamente tracciati – consente all’interprete rossinano di aggiornare costantemente le sue prestazioni, assicurando allo spettacolo una evoluzione continua che evita il pericolo di fossilizzarlo in schemi rigidi e datati. La possibilità di intervenire su un testo senza commettere sacrilegio è l’elemento che assicura al discorso rossiniano un aggiornamento automatico, giacché l’interprete vi immette esperienze che appartengono alla contemporaneità e al gusto corrente, rinfrescandolo e rinnovandolo di continuo.

La mescolanza di stilemi di diversa matrice, che in altri autori determinerebbe contrasti imbarazzanti, diventa in Rossini, specie nelle opere di genere comico, fonte di inedite emozioni e dà origine a situazioni e personaggi inconsueti, anche sottratti alle leggi della logica e della coerenza. Non esiste testimonianza di incomunicabilità più straziante di quella che impedisce a Tancredi e Amenaide di raggiungere la felicità: il loro amore è tanto profondo e radicato nell’oscurità del sentimento che, nei lunghi duetti dove i due giovani si affrontano senza testimoni, una tensione emotiva insostenibile impedisce loro di sciogliere l’equivoco che li ha separati. Elena, la misteriosa e bellissima Donna del lago, é una sorprendente anticipazione di Melisande, dotata della stessa carica di innocente perversione che la porta a seminare amore e morte: il duetto fra lei e il monarca travestito raggiunge un’incandescenza erotica inusitata per Rossini, ma l’ascoltatore è disorientato dal constatare che Elena indirizza i suoi ardori non all’interlocutore Uberto, crudelmente tratto in inganno, ma al suo amato Malcom lontano. Questo giocare coi sentimenti, a volte cinico e spietato, a volte tenero e sfuggente, rende difficile la messa a fuoco del messaggio artistico e fa di Rossini, nonostante l’apparente semplicità dell’esposizione, un autore elitario e complesso.

L’intrecciarsi di temi e motivi stilistici tanto discordanti, l’addentrarsi in campi lontani dai gusti estetici del tempo ha disorientato un pubblico che tributava a Rossini successi trionfali senza intendere le vere ragioni della sua grandezza, la novità dirompente della sua proposta artistica. Ma, oltre al pubblico, queste escursioni nell’ignoto e nel futuro hanno turbato e messo in crisi lo stesso compositore, obbligato a comprimere le intuizioni del genio nei limiti di un mestiere condizionato dalla scelta di un canto anodino e asemantico che lo spinge a ricorrere a un virtuosismo estremo per dotare l’interprete di vocaboli capaci di trasformare in emozioni alte una materia prima grigia e amorfa. Dar senso drammatico a questo mestiere ha richiesto uno sforzo sovrumano, certo all’origine delle crisi neurologiche che hanno spinto Rossini all’abbandono della composizione.

Due sono i tratti salienti della creatività rossiniana, riassumibili nelle opposte categorie di apollineo e dionisiaco, (definizione da preferirsi alla consueta contrapposizione di classico e romantico). Quello di natura apollinea persegue un distacco metafisico dall’emozione, proiettata in un mondo ideale di platonica lontananza, dove la temperie morale, il luogo culturale, l’azione simbolica smorzano e purificano i comportamenti terreni. Nella produzione seria di Rossini, la linfa apollinea coltiva il distacco dalle passioni caro ai classici, ma non impedisce l’accensione romantica di preludi strumentali quali quelli del Tancredi, insuperabile manifesto dello Sturm und Drang, né la sincerità di intime confessioni dell’anima come quelle che riportano a dolente dimensione umana il delirio di Assur e lo struggimento di Semiramide.

L’urgenza dionisiaca agita invece le opere composte per i teatri napoletani, certamente influenzata e alimentata dal temperamento della diletta Colbran, oltreché favorita dall’apertura culturale di una capitale pronta ad accogliere ogni fermento di novità. Gli impeti dionisiaci che portano al calor bianco tante scene del Maometto II, de La donna del lago, del Mosè in Egitto, dell’Otello trovano un limite invalicabile nell’artificiosità del canto belcantistico, ma sono sufficientemente tempestosi per spostare le colonne d’Ercole dell’opera lirica ben al di là dei mari attraversati dagli operisti che l’hanno preceduto.

Nel campo dell’opera buffa, Rossini sostituì al dualismo apollineo-dionisiaco l’elezione di una comicità astratta e iperrealista, agita, nella sua prima fase compositiva, da maschere convenzionali, proprie della Commedia dell’Arte piuttosto che dai personaggi pensanti della Commedia di carattere, poi mescolata con altri di notevole spessore umano, tipi riconoscibili, inseriti in un contesto sociale osservato con arguzia e spirito indagatore che non sarebbe dispiaciuto a Goldoni e a Moliére. Già le cinque farse veneziane di gioventù, quattro di soggetto comico (La cambiale di Matrimonio, La scala di seta, L’occasione fa il ladro, Il signor Bruschino), e una semiseria (L’inganno felice), avevano mostrato la perfetta corrispondenza fra una musica briosa e ritmicamente animata e i gesti leggeri e della farsa. La genericità dei libretti, compilati al solo scopo di divertire, aveva sconsigliato Rossini di affrontare temi di alto valore etico. È la felicità dell’invenzione musicale, il brillare di un canto diventato punto focale della rappresentazione a conferire ai suoi spettacoli una sostanza che li distanziava irrimediabilmente da quegli intermezzi buffi d’origine napoletana e veneziana da cui avevano preso le mosse. Pur nella brevità dell’assunto, già affiorano figure che rimangono nella memoria e si avverte la presenza di una cifra comica che induce a sostituire alla meccanica superficialità della risata il più duraturo riflesso del sorriso.

Le prime opere giocose, L’equivoco stravagante e L’Italiana in Algeri, di puro stampo surreale, presentano personaggi difficili da situare in un contesto reale; tuttavia la qualità dell’inventiva musicale ne dilata la dimensione sino a conferirgli l’autorità di contestare la morale di una società ipocritamente perbenista. Nell’Equivoco stravagante si esalta il mondo libertario e trasgressivo della goliardia bolognese con un tal fuoco d’artifizio di licenziosi doppiosensi da stupire come un simile soggetto abbia potuto passare indenne l’esame dell’arcigna censura pontificia. Nell’Italiana in Algeri, Isabella esalta un femminismo iperbolico, che alla libertà di costume unisce una disinvoltura morale spregiudicata tesa a raggiungere il fine desiderato. Sul versante opposto, il pacchiano machismo di Mustafà offre un ritratto corrosivo del potente di turno. L’aver situato l’azione in un un luogo geografico indefinito (l’Algeri di Mustafà potrebbe essere dovunque, come la Siviglia di Figaro, o la Napoli di Selim) ha forse sconcertato l’ottusità della censura che ancora una volta ha consentito senza rendersene conto la circolazione di uno spettacolo eversivo.

Rossini si stanca presto di trattare temi di puro divertimento: non potendo sottrarsi alle richieste di comporre opere buffe, tappa obbligata per giovani talenti in ascesa, cerca una nuova dimensione per i suoi personaggi comici, cui conferisce un’anima e un cervello che li distanziano dalle macchiette della farsa. Ne La pietra del paragone e, ancor più ne Il Turco in Italia, il Conte Asdrubale e Selim, affrontano tematiche della nascente società borghese, e le protagoniste femminili, Clarice e Fiorilla, coltivano l’evoluzione femminile da una prospettiva più profonda di quella esibita da Ernestina e Isabella nelle opere precedenti. La pietra del paragone, singolare antesignana delle opere-conversazione che Richard Strauss porterà al massimo splendore con Capriccio, descrive gli ozi vacanzieri di facoltosi borghesi con notazioni che sembrano riferite ai nostri giorni; Il Turco in Italia tratta con arguzia non esente da risvolti di severa moralità il tema del classico triangolo, Lui, Lei e l’Altro.

L’insofferenza di Rossini verso il melodramma d’evasione lo spinge a una ulteriore virata: Il barbiere di Siviglia e La Cenerentola hanno poco da spartire col legato della tradizione. Il comique significatif, riservato a tipi abnormi ma concreti, quali Don Basilio, Bartolo, Don Magnifico, prevale largamente sul comique absolu di Clorinda, Tisbe, Dandini. A questi si uniscono personaggi di grande taglia quali Figaro, alfiere di un terzo stato attivo e intraprendente affacciatosi alla ribalta della storia per prendere il posto di una stanca nobiltà, Almaviva, vero protagonista di un certame che sostituisce il sentimento alla seduzione galante, Ramiro, che scopre insieme l’amore e la pietà, tenori amorosi animati da sentimenti sinceri e generosi, Rosina e Cenerentola, personaggi femminili disegnati a tutto tondo: la prima, una donna astuta, decisa a usare le armi della femminilità intelligente per conquistarsi felicità e rango, ma anche dotata di fierezza e orgoglio tali da imporre al corteggiatore un gioco scoperto e pulito; la seconda simbolo di bontà paziente e generosa, premiata alfine da un fato che esalta la virtù. Fra questi capolavori, la frettolosa avventura de La Gazzetta registra un inatteso ritorno alla comicità pesante della farsa e convince Rossini ad abbandonare definitivamente l’opera buffa per dedicarsi a tempo pieno al prediletto genere serio.

All’opera comica ritornerà solo alla fine della traiettoria compositiva, spinto da una ineludibile occasione celebrativa, l’incoronazione di Carlo X , Re di Francia, sponsor del teatro parigino di cui era direttore artistico. Nasce così Il viaggio a Reims, un capolavoro di stupefacente vitalità che oggi conta innumerevoli esecuzioni, situandosi fra le sue opere più amate e meglio conosciute. L’opera è anomala, nel soggetto e nello svolgimento, tanto che Rossini la definirà, nell’autografo sopravvissuto, Cantata. La sapienza della maturità, il sereno distacco acquisito indagando l’animo umano ne fanno un esempio emblematico del nuovo modo di intendere il comico come altra faccia del tragico, complemento indispensabile per cogliere l’essenza dell’essere. Il successivo Comte Ory, nato forse per riutilizzare gran parte della musica de Il viaggio a Reims, che Rossini giudicava irrapresentabile nei normali circuiti lirici per l’inusitato numero di interpreti richiesti e per non mancare di riguardo all’illustre dedicatario, ripete il miracolo della consorella, rinforzato da nuove pagine di raffinata ispirazione. Anche qui il ricorso a un libretto di grossolana comicità nasconde una radicale contestazione al costume sessuale imperante, venendo a costituire, con il mozartiano Così fan tutte, una denuncia clamorosa delle ipocrite pruderies contrapposte dalla morale monoteista al fatalismo tragico del mondo greco-romano. Il celestiale terzetto che chiude l’opera unisce inferno e paradiso in un abbraccio blasfemo che inneggia all’ebbrezza dell’evasione e alla felicità di scelte controcorrente.

Un capitolo a parte merita la produzione semiseria propriamente detta, un genere che non ha avuto lunga fortuna nei gusti melodrammatici europei, ma che Rossini ha condotto al massimo splendore con opere fra le più ricche d’inventiva quali La gazza ladra, Torvaldo e Dorliska, Matilde di Shabran. In queste opere l’elemento comico non si mescola a quello serio in funzione secondaria e distensiva, come frequentemente si riscontra nel melodramma italiano, dal Monteverdi dell’Incoronazione di Poppea al Verdi della Forza del Destino, ma è componente inscindibile e fondante, dando origine a una tipologia drammaturgica sua propria, definita volta a volta larmoyant o piece á sauvatage secondo il tasso di pietismo o di sdegno rivoltoso acceso dalla vicenda, dove sempre un potente esercita il sopruso a danno di un’inerme infelice insidiata nell’onore e nei sentimenti sacri.

Paradossalmente classificato come il continuatore di una scuola operistica italiana che nei fatti aveva ampiamente contribuito a cancellare con la novità del suo teatro; lodato e adorato per valori che non corrispondono a quelli del suo ingegno, e dunque fondamentalmente incompreso; accusato di passatismo conservatore dai nuovi romantici che volevano esibire sulla scena sentimenti e passioni a dimensione individuale; tacciato di astrusità germanica da critici drogati dall’edonismo disimpegnato dell’opera italiana settecentesca e di sciatteria routinaria dai giovani alfieri della musica dell’avvenire; dileggiato per la trasparenza della scrittura dai tanti incapaci di distinguere fra povertà e semplicità, Rossini sommo al rovello di un autore frainteso lo stress di un’attività condotta a ritmi forsennati e, malato di nervi, volle rifugiarsi in un amaro silenzio piuttosto che cedere alla lusinga delle nuove tendenze.

Trovò la forza del ritiro definitivo soltanto dopo il trionfo del Guillaume Tell, salutato anche da nemici e critici come un capolavoro di profetica grandezza. Con quest’opera Rossini dimostrava a sé stesso e al mondo che la vena creativa non si era inaridita, che l’intelligenza che guidava il suo talento sarebbe stata capace di reggere la sfida col futuro, che il rossinismo che aveva orgogliosamente coltivato e difeso sino all’ultimo non era ostacolo al traguardo dell’immortalità.

Alberto Zedda

   In programma di sala del Teatro Real  2007

© Zedda-Vázquez