Direttore d’orchestra e interpretazione: dalla filologia all’ermeneutica

 

Il fascino del direttore d’orchestra non promana soltanto dall’esercizio di quel potere dittatoriale teorizzato da Elias Canetti in un celeberrimo capitolo del suo Massa e potere: anomalo e interessante, é anche il modo in cui egli svolge la funzione di comunicatore.

Il messaggio che trasmette al pubblico che assiste al suo concerto o ascolta una sua registrazione non passa direttamente fra lui e l’ascoltatore, come succede col pianista, il violinista, il cantante. È indispensabile la mediazione di altri musicisti, a loro volta impegnati a comunicare con i loro strumenti il messaggio sotteso alle note che essi stanno traducendo in suono. In questo processo di restituzione del testo, il professore d’orchestra deve tacitare il proprio giudizio critico, mettere da parte la propria sensibilità per aderire alla visione interpretativa del direttore, le cui indicazioni non possono essere discusse e disattese senza compromettere il risultato tecnico e artistico dell’insieme. Per convincere lo strumentista eccellente a rinunciare alla personale visione dell’opera affrontata e a prodigarsi con generosità a dar vita e calore a una lettura diversa dalla sua, occorre che gli argomenti tecnici e artistici addotti dal Maestro, la forza del suo carisma, la riconoscibilità del suo disegno interpretativo, l’eloquenza dell’immagine evocata, la perentorietà del traguardo da conseguire penetrino con chiarezza e credibilità nella coscienza del collaboratore. Nel dialogo con l’orchestra, il direttore avrà da insegnare quanto da imparare e si dimostrerà miglior capitano quanto più saprà conciliare la ricerca dell’effetto desiderato con l’apporto di strumentisti cui talvolta capita di vedere più lontano di lui.

Nella solitudine dello studio, il direttore d’orchestra dovrà proiettare nell’immaginario della fantasia la pagina muta della partitura che si accinge a approfondire, accendendo di suoni e colori virtuali un tracciato dove le linee del discorso, principali e complementari, le infinite sfumature timbriche, ogni impasto strumentale, l’emergere solistico di uno strumento sullo sfondo cromatico del tutti, devono venir collocati nel posto giusto col giusto rilievo, tessere di un mosaico che ricomponga idealmente l‘affresco pensato dal compositore. Questa sonorizzazione virtuale della partitura dovrà poi acquistare veste agogica, prefigurando il procedere ritmico della battuta, guidata da un respiro lento o veloce, libero o rigoroso, trattenuto in apollinea contemplazione o slanciato nell’ebbrezza dionisiaca, secondo la temperie espressiva del discorso musicale. L’articolazione retorica dovrà essere capace di svelare all’ascoltatore il racconto sotteso, accompagnandolo in un viaggio di onirica magia, di eccitante avventurosità. Dal dono demiurgico di intuire il tesoro nascosto nella pagina del genio, dalla dote sacrata di farne partecipe l’ascoltatore, si evince la statura dell’interprete, il suo diritto a proclamarsi dispensatore del pane celeste dello spirito.

Il tragitto che lo porta a realizzare l’opera che ha immaginato nella meditazione dello studio passa dunque obbligatoriamente attraverso un soggetto altro da sé, l’orchestra. Per il direttore, l‘orchestra può essere allo stesso tempo collaboratrice o antagonista: collaboratrice se arriva ad annullare la spinta delle singole personalità per assumere incondizionatamente la visione interpretativa pretesa dal direttore; antagonista se resiste a cancellare, in toto o in parte, il filtro dello scetticismo critico per identificarsi senza riserve con l’immagine sonora e la costruzione formale imposte dal direttore, abbandonandosi fiduciosa al respiro della sua battuta. Per trasferire all’orchestra il progetto elaborato nella sua mente, durante le prove il direttore dispiega suggerimenti di ordine tecnico, ricorre a immagini metaforiche, a spiegazioni razionali, a riferimenti culturali. Dalle sue parole l’esecutore deve ricavare la cifra stilistica e il clima espressivo in cui operare e comprendere gli esiti cui deve tendere il suo lavoro. Un bagaglio culturale importante sarà dunque indispensabile quanto più alte siano le ambizioni da conseguire.

Al momento della sintesi, durante il concerto, è il gesto del direttore, l’alzarsi e abbassarsi della sua bacchetta a rievocare allo strumentista l’intensità dinamica e l’andamento agogico stabiliti nel corso delle prove, determinando così la pulsione del discorso, la sua progressione emotiva, lo svolgimento di un teorema interpretativo tanto più avvincente quanto più ricco di accensioni, disvelamenti, evocazioni, sorprese. La bacchetta del Maestro ha il compito pratico di dirigere il traffico affinché tante persone che suonano parti diverse concomitanti concorrano disciplinatamente a realizzare un unico, coerente disegno. Ma nei grandi direttori la bacchetta svolge anche una funzione carismatica che sfugge a spiegazioni tecniche razionali e sprigiona una forza ipnotica, un’energia misteriosa e inebriante che trascina esecutore e ascoltatore fuori dal tempo reale. Quando si verifica questo sortilegio il concerto diventa memoria, sostanza dell’esistenza.

Il direttore d’orchestra che affronta l’opera lirica deve fare i conti anche con altri soggetti posti sotto il suo comando e la sua responsabilità, soggetti che rivendicano un’autonomia concettuale ancora più marcata di quella pretesa dai professori d’orchestra: registi, scenografi, illuminatori, cantanti, coreuti, etc. I cantanti arrivano alle prove con la parte studiata e memorizzata e dunque hanno messo a fuoco un personaggio creato sulla base della propria sensibilità e preparazione culturale, nutrendolo di sfumature psicologiche e di sentimenti, dotandolo di gestualità e comportamenti conseguenti all’immagine che del personaggio si sono fatti. Non conoscendo le peculiarità dei partners coi quali dovranno dividere emozioni e accadimenti, tendono giustamente a mettere in luce le proprie qualità specifiche, contando che sia l’altro a adattare le sue per raggiungere la sintonia ottimale. Tocca al direttore d’orchestra accertare se l’impostazione del personaggio elaborata collima col senso che egli intende conferire al testo letterario e al discorso musicale che lo sostiene; tocca ancora a lui stabilire se quel personaggio si muove con coerenza nel contesto dello spettacolo, posto che il successo non nasce dalla somma di validissime individualità, ma dal gioco concertato di tutti gli elementi che concorrono a realizzarlo parlando una stessa lingua e agendo nel medesimo ambito ideologico. Questo lavoro di coordinamento e di mediazione, che spesso conduce a modificare profondamente l’impostazione di partenza, impone un delicato compito di persuasione e convincimento. Se un cantante non interpreterà con sincera convinzione il personaggio chiamato a far rivivere nella finzione scenica, mai potrà convincere il pubblico dell’autenticità del suo agire e del suo sentire. Non dunque con l’autorità del capo indiscusso il direttore dovrà indurre il cantante a deporre la veste indossata per assumere sembianze indirizzate a una diversa visione interpretativa, ma sviluppando un’azione psicologica accorta e paziente, con argomentazioni motivate e convincenti.

Tra i collaboratori del direttore d’orchestra, il regista è colui che oggi maggiormente interferisce nella realizzazione di uno spettacolo lirico. L’enorme importanza che la parte visiva ha acquistato per influsso di cinema, televisione, videoregistratori, DVD, etc, ne fanno il vero deuteragonista, detronizzando nella scala dell’attenzione perfino il divo del canto. Con lui specialmente il direttore d’orchestra dovrà fare i conti per conseguire la cifra stilistica desiderata, quella che sottragga lo spettacolo alla frammentazione di momenti anche felici per situarlo in un unicum coerente e omogeneo, risultato sinergico del lavoro di tanti talenti. Troppe volte il regista d’opera si pone nella stessa posizione del collega che mette in scena un dramma recitato e elabora la propria concezione dello spettacolo partendo dal testo letterario prima che da quello musicale. Dai concetti espressi nel testo egli prefigura uno spettacolo che ponga in rilievo i significati che sensibilità e cultura di uomo contemporaneo gli fanno intuire, e non si perita di escogitare trasposizioni d’epoca, di luoghi e di situazioni che favoriscano la congrua focalizzazione delle sue intuizioni. Troppe volte non tiene conto che, a differenza di chi mette in scena spettacoli in prosa, la sua regia si sovrappone a un’altra preesistente con la quale deve in ogni caso fare i conti e trovare un compromesso accettabile: quella del compositore, che a sua volta ha già interpretato il testo letterario, corredandolo con una musica concepita per esprimere emozioni, stati d’animo, gestualità, sentimenti determinati dalla sua visione; una musica che si traduce in figure atte ad accompagnare azioni specifiche e precisi comportamenti, ai quali imprime un andamento ritmico calcolato, mirato a cogliere i traguardi emotivi dettati dalla sua ispirazione.

Il regista d’opera deve capire che la musica che accompagnerà lo spettacolo da lui visivamente realizzato non è un sottofondo generico, adattabile a molteplici situazioni, come in un film o in un carosello pubblicitario, ma è già di per sé la descrizione di un’azione compiuta e sviluppata. Per quanto il linguaggio musicale venga considerato privo di valori semantici precisabili, un allegro vorticoso non potrà mai adattarsi a un’astrazione meditativa, una danza giocosa non converrà a riflessioni metafisiche, una marcia guerriera non si accompagnerà a un’estasi amorosa. Il regista d’opera lirica, non potendo ovviamente cambiare o alterare la musica che riveste il testo che viene allestendo, dovrà dunque tener conto della regia stabilita dal compositore e concepire una messa in scena, affrancata quanto si vuole dalle prescrizioni delle didascalie originali, ma compatibile con gli indirizzi espressivi che emergono prepotenti e incomprimibili dalle pagine della partitura.

La funzione che meglio distingue l’homo sapiens dall’animale e dall’autómata artificiale è il linguaggio, inteso non solo come sistema di segni e di funzioni per veicolare informazione e per reagire allo stimolo di sensi e sentimenti, ma come interpretazione critica delle sollecitazioni neuronali, alla ricerca di quella verità che dovrebbe essere il fine ultimo dell’homo loquens. Il linguaggio è creatività, libertà, giudizio morale, e trova nell’idea innata il supporto semantico per comprendere e restituire la risposta corretta alla stimolazione sensoriale. Resta da capire se l’idea innata che entra nel cerebro con la nascita della vita sia stata insufflata da uno spirito divino, che con questo regalo avvelenato ha innalzato l’uomo alla sua onnipotenza nello stesso momento in cui gli svela la sua finitezza mortale, o sia essa stessa un prodotto dell’evoluzione entrato nel codice genetico inscritto nel DNA. Nel processo di socializzazione, di costruzione dell’identità umana sviluppato dal linguaggio, la musica ha titoli di privilegio grazie alla natura dell’idioma che adopera per esprimersi: il suono, organicamente connesso alla matematica e alla fisica, regolato, nel suo unirsi ad altri suoni, da leggi numeriche che i grandi filosofi dell’antichità non si stancarono di teorizzare. I loro trattati non si limitano a precisare i rapporti matematici che ne sostanziano il timbro e la natura consonante o dissonante, ma stabiliscono anche giudizi di merito estetico e edonistico, assegnando alle varie combinazioni ottenibili con l’ordinata successione di concatenazioni diatoniche e con la loro sovrapposizione in accordi, la capacità di esprimere e generare stati d’animo: di allegrezza o malinconia, di eccitazione o calma, di erotismo o spiritualità.

Se si considera che il suono è stato la base della comunicazione umana, la sua manifestazione primordiale, non si può non riconoscere al prelinguaggio costituito dall’aggregazione dei suoni un suo autonomo valore semantico, diverso da quello del logos utilizzato dall’homo sapiens, ma nato e cresciuto con lui, consustanziale al suo processo evolutivo. Il fatto che il suono sia relazionato coi calcoli della matematica e della fisica, ma anche con l’ermeneutica di significazioni magiche e esoteriche, gli assicura la possibilità di divenire metalinguaggio significante. Il suono rivendica anche il merito dell’anteriorità rispetto al logos, del quale è stato prodromo necessario: con suoni acconci l’australopiteco esprimeva paura, amore, ferocia, desiderio, gioia, dolore. Il suono è stato, ancora, il primo strumento della socializzazione, consentendo alla comunità di unire sforzi per realizzare imprese impossibili al singolo, per moltiplicare strategie di difesa, per combattere l’ostilità dell’ambiente. La musica, il suono modulato, nell’accezione lata e primitiva, ha preparato la nascita della civiltà: senza un ritmo che regoli le cadenze di movimenti collettivi non sarebbe stato possibile alle moltitudini inermi dei paria trascinare le pietre immani delle piramidi e dei templi. Ancora il ritmo, associato all’allucinazione ipnotica di suoni ossessivamente ripetuti, provoca l’ebbrezza del danzatore, l’eccitazione del guerriero, l’estasi mistica dello sciamano. Dunque una funzione propedeutica all’accensione di emozioni e sentimenti che accenti e melopee aiutano a fissare nella memoria. Per questo nella Grecia di Platone e Aristotele, culla della civiltà, i versi dei poeti, i proclami dei vincitori olimpici, i peana degli eroi, gli editti dei reggitori, i dialoghi dei teatranti, i riti dei sacerdoti erano accompagnati invariabilmente da un canto modale, animato da una scansione ritmica accentuata. E nella paideia, nell’educazione dell’individuo, accanto alla matematica, la musica occupava un posto così importante che nella Grecia antica l’uomo colto si identificava con l’appellativo musikos aner, musico.

La natura fisico-matematica della musica indurrebbe a pensare che sarebbe stato possibile trovare una notazione in grado di fissarne i contorni con precisione, quando i suoni venissero organizzati in aggregazioni orizzontali (melodia) o verticali (armonia), dando luogo a un percorso riconoscibile. Purtroppo, la notazione elaborata per tramandare in modo consensuato il discorso musicale non arriva a esprimere immagini che oltrepassino la pura fissazione di un suono e della sua durata perché il linguaggio della musica, diversamente da quello parlato, non utilizza figure razionalmente riconoscibili, non riflette valori semantici condivisi pur mirando a traguardi concettualmente complessi. Le immagini da proiettare sulla carta dovrebbero tradurre impalpabili stati d’animo, emozioni vagamente orientate da richiami onomatopeici, atmosfere che inducono alla gioia o alla tristezza, ma il codice di cui si avvale la musica per la sua traduzione grafica non arriva a esprimere a sufficienza le sfumature che sottintende. Per questa ragione, accanto alle indicazioni mutuate dal testo scritto si suole tener conto di una serie di consuetudini tramandate, riassunte sotto la generica qualifica di tradizioni: una prassi non scritta che è appannaggio specifico dell’interpretazione musicale.

L’elaborazione interpretativa del direttore d’orchestra parte ovviamente dal testo musicale dell’opera che si accinge a studiare. Anche se oggigiorno l’accesso alle fonti primigenie è facilitato da processi riproduttivi molteplici ed economicamente accessibili, lo strumento abitualmente consultato, quando esista, è la partitura stampata. Ogni compositore, però, manipola in modo personale l’effimero codice della notazione musicale introducendo nuovi segni, ricorrendo a caratteristiche grafiche inconsuete, escogitando indicazioni che non si trovano in altri manoscritti, nello sforzo di precisare le proprie intenzioni e di comunicare al meglio le immagini riposte. Nel passaggio dal manoscritto alla stampa questa individualità grafica viene fortemente attenuata dall’esigenza di ricondurre i segni a una koiné grammaticale concertata e da tutti comprensibile. L’originalità di scrittura dei singoli si stempera così in una pratica editoriale che attualizza i segni e li normalizza. Il manoscritto parla un linguaggio ben più vivo e ricco della sua traduzione a stampa: nella pagina autografa si cela sovente la soluzione di problemi che nascono dall’aleatorietà di una notazione ambigua. Le intenzioni segrete dell’autore si possono cogliere in una sottolineatura vigorosa o in un tratto reso incerto dal dubbio; in una nervosa cancellatura o in una paziente limatura di indicazioni espressive; nell’insistita precisazione di un modello di articolazione, nella puntigliosa ripetizione di accenti e staccati di diversa natura e significato; nell’imperioso arresto di una grande corona o nel respiro palpitante di una legatura; nel tormento di spunti più volte modificati inseguendo l’ideale o in inconsueti collegamenti di note che disegnano il procedere del melos, precisano la scansione del ritmo, la struttura della frase, il periodare della melodia: indizi che scompaiono nel processo di omologazione editoriale.

Nell’odierna editoria musicale si usano gli stessi simboli per partiture di Monteverdi e di Kurtag: ciò non aiuta a entrare nello spirito del testo, a ritrovarne il profumo stilistico, la collocazione ideologica. Per reazione, le partiture antiche vengono spesso presentate in elucubrate rivisitazioni storicistiche, che vogliono distanziarsi dalla pratica corrente fino a cancellare quanto di rivoluzionario e profetico, anche sotto l’aspetto tecnico ed evolutivo, sia contenuto nell’opera d’arte. Il melodramma barocco richiede regole e comportamenti lontani da quelli pretesi da ogni altra opera classica, romantica, verista, espressionista: varia il modo di suonare, di cantare, di fraseggiare, di ornare la melodia; variano gestualità e recitazione, veste timbrica, allestimento, illuminazione. Occorrono approfondimenti settoriali che confinano con la specializzazione, l’acquisizione di tecniche particolari, scelte per le quali non basta più la volonterosa lezione tramandata oralmente da una generazione all’altra. Ma il punto di arrivo non può essere il rifiuto di vivere la musica come esperienza precipuamente contemporanea, perseguendo la ricreazione di un mondo sonoro tramontato, il cui legato si é sicuramente già trasferito nella coscienza delle nuove generazioni.

Un aiuto insostituibile viene dalla filologia, che predispone testi fededegni, attenti a recepire, anche sul piano grafico, i sottintesi di una scrittura indagata con scientifica metodologia al fine di ripercorrere il percorso creativo riflesso nel manoscritto per ricercare un’autenticità quanto possibile vicina alle intenzioni dell’autore. Accanto al testo base, una moderna edizione critica allinea in appendice le aggiunte, i rifacimenti, gli adattamenti, i ripensamenti, le trasposizioni che l’autore o altri per suo conto hanno introdotto nell’opera d’arte per adeguarla alle diverse situazioni con cui ha dovuto confrontarsi nel corso della sua storia. L’interprete ha così a disposizione un testo princeps e una serie di varianti autentiche che potrà utilizzare a piacimento, aiutato anche dall’argomentato ragionare dell’apparato critico annesso alla partitura, che ricostruisce le circostanze che hanno dato origine alle varianti e dà conto di come sono stati individuati e corretti schematismi semplificatori, approssimazioni, incongruenze, contraddizioni, refusi, mai assenti anche in redazioni accurate del manoscritto. Il rigore filologico accerta poi che il testo rivisitato non contenga apporti mutuati da una pratica esecutiva spuria, apporti spesso derivati da tradizioni di comodo acriticamente introdotte per facilitare l’impegno dell’esecutore e troppe volte recepite tout court dall’editoria di consumo. L’interprete potrà così impostare il lavoro di ricerca partendo da un dialogo diretto con l’autore, senza la non richiesta mediazione di soggetti esposti alla costante mutazione del gusto e del costume.

Le riflessioni del Commento critico contribuiranno a identificare gli espedienti adatti a restituire correttamente il messaggio. Si tratta di collocare l’opera nel contesto storico che l’ha vista nascere, di mettere a fuoco i valori formali e lessicali che la caratterizzano, di recuperare prassi esecutive adeguate. La filologia, a volte sogguardata come scienza astratta e accademica che si contrappone alle ragioni del cuore e della fantasia, diventa così la migliore alleata del musicista. La diffidenza che circonda il lavoro del filologo nasce dal fatto che troppe volte la figura dello studioso e quella del musicista militante sono disgiunte, laddove dovrebbero ragionevolmente coincidere. Può capitare che il rigorismo massimalista arrivi a insidiare la libertà dell’artista e che la filologia, diventata fine a sé stessa, faccia apparire la musica al suo servizio e non viceversa. Nell’accezione appropriata la filologia deve invece essere sinonimo di interpretazione corretta e approfondita: il riesame delle componenti strutturali e linguistiche di un’opera d’arte orienta in scelte delicate, quali tagli, trasposizioni, fiorettature, ornamentazioni, puntature, fermate, sostituzioni, etc.

Le edizioni critiche nascono dunque dall’esigenza di tradurre i dati dell’esattezza filologica in un pratico strumento di lavoro, ma soprattutto portano un contributo sostanziale al formarsi di una mentalità attenta a rispettare i canoni espressivi di opere d’ogni epoca e forma, e propiziano la maturazione di una coscienza stilistica adeguata. Una coscienza che consenta di allentare rigidezze e feticismi per agganciarsi alla realtà di un discorso sempre rinnovantesi, capace di leggere proficuamente il passato in chiave di contemporaneità. Per queste ragioni l’edizione critica non costituisce un freno alla fantasia e alla libertà di chi l’adotta, lesivo dell’autonomia di scelte interpretative personali, ma fornisce informazioni preziose per maturare un concetto di “stile” corrispondente al pensamento estetico dominante.

Il musicista non deve disdegnare l’apporto di teorici e pensatori di altre discipline: le intuizioni di Schopenhauer e Nietzsche, hanno propiziato il nascere della scienza psicanalitica di Freud e Jung; i significati conferiti alla parola dalla lettura strutturalista di Saussure, Lacan e Lévy-Strauss hanno arricchito a dismisura la linguistica. Dai campi inesplorati dell’es sono affiorate le radici del nostro esistere; emerse pulsioni che spiegano la follia e aiutano a guarire; sprigionate forze che scuotono l’equilibrio e le certezze dell’ego. Il percorso della conoscenza non parte più dal momento in cui l’uomo attiva la coscienza, mettendo in moto il meccanismo della classificazione e del giudizio: si viene esplorando quanto ha preceduto il trauma della nascita, sinora confinato nel regno indistinto dell’inconscio e affidato per la sua decifrazione al mito, alla religione, alla poesia, al sogno. L’interprete, che per risvegliare e nutrire la sua creatività deve far appello, oltre che alla ragione, alla potenza evocatrice della fantasia e alla violenza esaltante del senso, non può sottrarsi all’esperienza dei nuovi scenari apertigli dal filosofo e dallo scienziato.

L’estensione dell’indagine dai territori esplorati dell’ego al continente sommerso dell’es comporta l’allargamento del concetto di interpretazione tradizionale, che deve ora tener conto anche del sospettoso irrazionale. Per unire al razionalmente analizzabile il dato incerto dell’inclassificabile sarà necessario ricorrere all’ermeneutica, che è appunto scienza dell’interpretazione allargata a tutto campo. L’ermeneutica, applicata da sempre a oscuri codici religiosi e giuridici, ben può aiutare a penetrare un linguaggio come quello della musica, sostanziato di simboli e metafore. Con l’ermeneutica, sarà più facile al musicista attraversare il confine che divide il mondo della ragione da quello dell’istinto per ritrovare l’Urschrei, il grido originario che ha dato senso al suono delle sue note sicché possano acquistare la grazia di esprimere. Per liberare ciò che la musica nasconde, giova recuperare il valore simbolico di riti e manifestazioni incentrati sulla forza ipnotica del ritmo e sulla suggestione inebriante del suono. L’indagine filologica, per quanto seria e profonda, non basta più.

Filologi integralisti si spingono a teorizzare che il curatore di una edizione critica non deve limitare il suo compito alla corretta decodificazione di un testo e alla sua analisi strutturale, ma deve estenderlo alla fase di realizzazione vera e propria dell’opera. Il suo intervento non dovrebbe dunque arrestarsi alla pubblicazione della partitura, ma estendersi alla scelta e alla formazione degli interpreti chiamati a metterla in scena. Se di melodramma si tratta, la sua supervisione dovrebbe orientare l’elezione del regista, per assicurare una traduzione visiva del testo musicale consona al concetto originario, e quella dei cantanti, giacché tocca a lui salvaguardare il testo da forzature e deficienze di voci considerate improprie. Dovrebbe essere ancora lui a presiedere le prove musicali per approvare le previste variazioni vocali, definire lo stile di canto confacente, il fraseggio adeguato…. Il rigore scientifico del filologo, dunque, contrapposto all’intuizione dell’artista, per conseguire un risultato volto a riproporre l‘emozione del momento che ha visto nascere l’opera d’arte piuttosto che a cogliere l’impatto del capolavoro sulle generazioni che lo riscoprono.

Per questi massimalisti, l’opera d’arte vivrebbe il momento ideale all’atto della creazione e verrebbe inquinandosi quando l’interprete volesse riportarla al linguaggio e all’immaginario del suo tempo. Una visione storicistica che si allinea a quella dei tanti cultori dell’arte musicale rinascimentale e barocca e relativi epigoni sette-ottocenteschi, per i quali il recupero di strumenti d’epoca e di forme esecutive arcaiche è condizione indispensabile per ricreare il capolavoro.

Assumere la filologia musicale come strumento taumaturgico per maturare una corretta visione interpretativa ricorda la pretesa, nel campo della scienza medica, di attribuire alla macchina una capacità diagnostica delle malattie sulla base di parametri prestabiliti, considerati ugualmente validi per tutti i soggetti. Una errata interpretazione medica di risultati forniti da una macchina inanimata, senza l’ausilio di una specifica sintomatologia psichica e comportamentale, potrebbe condurre a conseguenze lontane da quelle sperate; un’arbitraria interpretazione del segno autografo, senza il concorso di una sensibilità artistica creativa, potrebbe spegnere nella routine la fiamma dell’ispirazione. Nella medicina la capacità di interpretare dati oggettivi in funzione del reale contenuto psicofisico del soggetto indagato e, di conseguenza, le scelte pratiche che ne devono derivano al fine terapeutico, sono i valori che caratterizzano l’abilità dei medici e che determinano la loro differente qualificazione. Nella filologia il dono di poter leggere al di là del segno tracciato ciò che trascolora nell’inesprimibile per intuirne i valori trascendenti, distingue l’interprete illuminato dal corretto professionista.

Il progresso scientifico offre ad ogni uomo l’illusione di fornirgli la lampada di Aladino: schiacciando un tasto, Sesamo gli apre ogni porta e mette a disposizione di tutti il pane della conoscenza. Sullo schermo di casa compare qualunque libro, qualunque quadro, qualunque paesaggio della natura o dello spirito, qualunque riflessione pubblica o privata. Mai l’uomo comune ha posseduto tanto potere. Ma questo dono può risultare inane e controproducente come il voto democratico all’incolto. Per non venir travolti, infrante le dighe del giudizio, dalla forza smisurata della mediocrità che tutto confonde e distrugge, occorre recuperare la meditazione del filosofo, il silenzio dell’anacoreta.

Oggi la neuroscienza sospetta che nel cerebro si nasconda il bene supremo: l’anima, intendendo riferirsi con tale termine a tutto quanto attiene all’ambito dello spirito, a ciò che è svincolato dai condizionamenti della materia. Se davvero la decodificazione di cellule e circuiti neuronali che albergano nel lobo anteriore del cerebro arrivasse a spiegare come e perché nascono i pensieri, i giudizi, le fantasticherie della poesia e dell’arte, parole come libero arbitrio, volontà, responsabilità perderebbero ogni valore consolidato. Se un medicamento o una scarica energetica, attivando circoli danneggiati o sostituendo cellule malate, arrivassero a regolare a piacimento il dolore e la gioia, la depressione e l’euforia; se l’intervento di un neurochirurgo potesse correggere l’inclinazione a delinquere, predisporre al bene o al male, orientare alla saggezza e alla giustizia, verrebbe a crollare la visione antropocentrica che per millenni ha regolato il rapporto dell’uomo con la natura, spogliandolo della trascendenza che ne faceva il signore indiscusso e riportandolo alla condizione di ogni essere vivente. Se le reazioni conseguenti all’emozione del sentimento fossero regolabili a comando, la unicità dell’individuo, la sua libertà di giudizio, la sua personalità ne uscirebbero drammaticamente ridimensionate. Se l’accorgersi di sentire non appartiene più alla categoria dello spirito, ma viene a far parte delle reazioni meccaniche di un’entità materiale, per nobile che possa essere, scompare quell’entelechia suprema che chiamiamo anima e che gli uomini di fede ritengono insufflata nel corpo da uno spirito divino, da un pantocratore invisibile, da un superiore ordinatore dell’universo. Perduta l’anima, vien meno l’illusione di vincere con essa la morte e la finitezza dell’individuo e, cancellata la speranza dell’immortalità, sia pure collocata in un altrove incomprensibile alla ragione, viene meno il bisogno di un Dio creatore che ci apra le porte di un paradiso trascendente il tempo e lo spazio, dove ai giusti tocchi il premio dell’eternità.

Quando si appurasse che l’anima non nasce da un alito divino, ma è una secrezione di neuroni comune a tutti i componenti della specie, l’uomo cesserebbe di situare il suo destino ultimo fuori dalla terra che abita e non si ostinerebbe a cercare felicità e consolazione in un paradiso perduto, evocato per tacitare il terrore del nulla. Resterebbe certo la pena della morte, l’ansiosa domanda di senso di un’esistenza tanto dolorosamente circoscritta, ma il destino comune verrebbe accettato con la stessa dolce e malinconica fatalità con cui si accetta il sorgere della vita. La ricerca della felicità consolatoria avverrebbe qui e ora e non sembrerebbe impossibile coglierla nel lampo abbagliante di un grido d’amore; nella vertigine di un verso poetico o di una frase musicale; nella contemplazione della bellezza; nel respiro incantato della natura. Sarebbe più facile convincere che le ragioni dell’esistenza stanno nell’energia che si risveglia a ogni sorgere del sole piuttosto che nel miraggio di un salvifico aldilà dai contorni mutevoli secondo il culto d’appartenenza. L’eternità sarebbe raggiungibile sulla terra col faustiano comando dell’attimo arrestati, e quell’attimo innalzerebbe l’uomo alla onnipotenza di un Dio e gli darebbe la forza di confrontarsi senza timore con l’incommensurabilità dell’infinito.

La coscienza dell’essere, l’accorgersi di sentire, non sarebbe dunque la grazia di un Dio, ma la conquista involontaria di un essere che nella catena evolutiva della specie ha fatto un salto di qualità d’incommensurabile portata. Colui che decise di trasformare il logos in scrittura (un Principe? un Saggio? un Poeta?), colui che raccolse e diede corpo ai racconti dell’Iliade e dell’Odissea, i testi che primi hanno cantato i sentimenti degli uomini, fu quegli che gettò le basi della memoria e della riflessione. Dopo quell’autentico big bang dello spirito, i testi dell’ermeneutica mistica, i classici della letteratura e del teatro, i mille libri che quotidianamente si stampano nel mondo sono un’inesauribile variazione, un continuo approfondimento, una instancabile meditazione di quei temi. Dal logos fattosi memoria inizia il viaggio verso la conoscenza, il viaggio che Ulisse, Dante, Tamino, e tanti altri hanno testimoniato per invitarci a intraprenderlo. Dal logos fattosi comunicazione parte, la costruzione di un ordine che un giorno dovrebbe consentire all’ uomo aperto alla solidarietà di realizzarsi nella duplice natura materiale e spirituale. Dall’esigenza di prendere coscienza di sé nasce la storia di una civiltà che dovrebbe condurre a una morale compartita, ispiratrice di istituzioni gestite da regole elaborate nell’ideale contesto di una società giusta e libera.

Alla musica, più che alle altre arti, tocca in sorte di aggregare vasti strati sociali, anche di formazione culturale distinta, arrivando a smuovere anche l’animo dell’incolto e del povero di spirito: ne fa fede l’aulos di Orfeo, capace di incantare con egual forza il più potente degli Dei e l’ultimo degli animali selvatici. L’astrazione dei vocaboli impiegati dal musicista contribuisce a rendere più accessibile la comunicabilità del suono organizzato rispetto ad altre manifestazioni dello spirito. Ma cosa intendiamo col termine musica? Di quale musica stiamo parlando? La musica nasconde un’ambiguità che le altre arti non compartono in egual misura: in quest’unico concetto convivono realtà profondamente diverse, separate da un divario formatosi pochi secoli addietro, in coincidenza con la nascita della polifonia e del contrappunto, e andato aumentando fino ai nostri giorni. Col sorgere del secondo millennio dell’era moderna nasce una musica complicata e dotta, che nell’intrico di voci che si inseguono e si sovrappongono smarrisce la percepibilità della parola cantata e si sottrae alle regole naturali che governano l’alternanza di consonanze e dissonanze, scompaginando le certezze dei teorici. Una musica difficile, fatta da chierici per i chierici, destinata a una fruizione elitaria. Per reagire a questa fuga dal quotidiano e nello stesso tempo per non disperdere le conquiste di una musica fattasi ricca e significante, i fiorentini della Camerata de’Bardi hanno riportato in auge la cultura del musikos aner greco e inventato, col melodramma, una forma di canto che non soltanto consentisse alla parola di essere chiaramente intelligibile, ma che fosse in grado anche di caricarla di nuovi sensi espressivi, di illuminarla di nuovi significati simbolici. La scoperta dei fiorentini pose le basi per una diffusione inimmaginabile della musica colta occidentale, che toccò il culmine nell’ubriacatura operistica di fine Ottocento.

Al musicista colto e esigente del ventesimo secolo, questa popolarità parve frutto di una compromissione limitatoria consumata a danno della nobiltà di un’arte che vuole capace di rivaleggiare con qualunque altra manifestazione del pensiero. Rivendicando una totale libertà creativa, e dunque rifiutando tanto i condizionamenti delle leggi fisiche quanto quelli di una pigra tradizione, il compositore della Neue Musik è tornato a distillare musica difficile e complicata, deliberatamente rifiutando il facile consenso dell’ascoltatore per affermare il diritto della sua arte a trattare, da pari a pari con la letteratura e la metafisica, i grandi temi dello spirito. La musica colta sta alla musica popolare e di consumo come il linguaggio poetico sta a quello prosastico di uso quotidiano: la deformazione poetica cambia il significato della semantica innata sino a creare un linguaggio nuovo, e pur tuttavia rimane linguaggio. Se alla musica colta viene negata questa qualità è perché non educhiamo a sufficienza il cerebro ad assumerla. Sul fronte meno ambizioso della musica non impegnata, la musica popolare si è ridotta alla conservazione di un patrimonio solo saltuariamente vivificato da fenomeni autenticamente popolari, come il jazz, lo spiritual, la canzone patriottica, il contrappunto al lavoro e alla fatica, il canto di protesta. Prevale una musica di consumo, anche pregevole, che riempie ogni angolo abitabile, cancellando in modo indecente la pratica del silenzio, indispensabile alla meditazione e alla riflessione…

Scrive Nietzsche nella prefazione di Aurora: “Filologia è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento, essendo un’arte e una perizia di orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento. Ma proprio per questo fatto è oggi più necessaria che mai; …. nel cuore di un’epoca del “lavoro”, intendo dire della fretta, della precipitazione indecorosa e sudaticcia, che vuol dire “sbrigare” immediatamente ogni cosa, anche ogni libro antico e nuovo: per una tale arte non è tanto facile sbrigare una qualsiasi cosa, essa insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente, in profondità, guardandosi avanti e indietro, non senza secondi fini lasciando porte aperte, con dita ed occhi delicati……” (Adelphi Edizioni, Milano 1964, versione di Ferruccio Masini).

Alberto Zedda

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