In margine all’edizione critica del Barbiere

Casa Ricordi ha presentato l’annunciata “Edizione Critica” del Barbiere di Siviglia in due volumi: la partitura d’orchestra e un commento critico articolato in più sezioni.

La partitura, di esemplare chiarezza, si presenta priva di note critiche e non appesantita da segni estranei alla notazione musicale. Poche le parentesi quadre, fra le quali il revisore ha compreso quei suggerimenti esecutivi il cui modello non è nell’autografo; più frequenti le parentesi rotonde, riferentesi alle didascalie derivate dall’edizione princeps del libretto, didascalie che sono la stragrande maggioranza in quanto il manoscritto rossiniano ne è avarissimo; poche legature tratteggiate, a suggerirne di inesistenti; qualche nota stampata in grafia più piccola che sottolinea altri rapporti del revisore dei quali però è stato dato conto anche nel corpus delle note critiche.

Con la formula VI-DE sono segnati i tagli, riportati dalla tradizione corrente per semplice ragione di praticità (nel commento a parte non mancano osservazioni riguardo la loro opportunità); i soli rinvii a piè di pagina si incontrano nei recitativi a proporre gli accomodamenti armonici necessari quando eventuali tagli o trasporti impongano una modifica di accordi.

La partitura segue la disposizione strumentale moderna, discostandosi da quella dell’autografo; gli strumenti traspositori conservano la notazione originale. Il sottotitolo “Melodramma buffo”, di cui autografo e primo libretto sono privi, deriva da antiche fonti e dalle edizioni più diffuse. Nell’elenco dei personaggi non è compreso quello di Lisa, la cui esistenza resta tuttora assai controversa. Toccherà al responsabile dell’esecuzione decidere se includerla dopo aver considerato la lunga dissertazione che il revisore ha dedicato all’argomento a pag. 81 del commento critico, al punto in cui nell’autografo si incontra questo nome.

Dai personaggi sono stati tolti anche Alcalde e Alguazils: il Magistrato di polizia (Alcalde) e i suoi sbirri (Alguazils) si trovano nell’elenco premesso al primo libretto, ma Rossini non li nomina, usando anche per loro, alla fine dell’opera, la definizione di Uffiziale e di Soldati già adottata nel primo atto. Un Indice molto dettagliato precede la breve Avvertenza del revisore dove viene spiegato il significato dei segni che non fanno parte della notazione musicale corrente. La suddivisione e la numerazione delle scene è stata desunta dal libretto del 1816, poiché Rossini non se ne è preoccupato.

Il volume che accompagna la partitura è suddiviso in quattro capitoli: una panoramica del Barbiere di Siviglia, inquadrato dal revisore in una visione storico-estetica che non indugia sui dati della cronaca; un esame delle fonti dell’edizione (più accurata la ricognizione dell’autografo, più sommaria quella delle fonti derivate); un capitolo dedicato ai criteri seguiti nella revisione; il corpo delle note critiche propriamente dette.

Queste due ultime parti riflettono la sostanza del lavoro compiuto. In quella dedicata ai criteri viene messa a punto una nuova dettagliata metodologia che travalica i confini del Barbiere e dell’opera rossiniana e invade il più ampio argomento delle edizioni critiche in genere. Esso viene a collocarsi come punto di riferimento ben preciso, spostando sul terreno concreto una discussione che sino a oggi ha peccato di astrazione e di utopismo. Questa metodologia, la cui efficacia è valutabile nelle soluzioni discusse nell’apparato critico e tradotte nell’ordito della partitura, si spera possa essere oggetto di polemiche, messe a punto, raffronti, integrazioni, suggerimenti da parte di quanti hanno a cuore il problema indilazionabile delle edizioni critiche di opere del grande patrimonio lirico italiano.

Impossibile riassumere qui i venticinque capoversi che illustrano quei criteri, ci si limita a ricordare i cardini su cui poggiano: la limitazione, volontariamente accettata, degli artifici da introdurre nella pagina stampata, con la conseguente rinuncia alla pretesa di rendere sempre percepibile l’intervento del revisore anche quando si limiti alla pura e semplice estensione di segni esemplificati dall’autore in modo inequivocabile; la convinzione che il materiale consultato debba essere il più ampio possibile, per riportare nel commento critico tutti gli elementi che possano orientare nella ricerca della volontà dell’autore.

Queste direttive partono dalla constatazione che nuovi strumenti di lavoro, come le edizioni critiche auspicate, verranno a incidere positivamente sul costume solo se sapranno soddisfare insieme le richieste degli esecutori-interpreti e quelle degli studiosi-musicologi: se arriveranno cioè ad assommare i requisiti dell’opera di divulgazione a quelli propri dell’opera di consultazione. Sarebbe assurdo pagare con la rinuncia alla chiarezza e alla praticità la sterile soddisfazione di dare un ordine più autentico a segni di importanza secondaria. Non avrebbero poi il giusto risalto quelle indicazioni dove l’intervento del revisore comporta ben maggiori responsabilità.

Il contributo della tradizione ha trovato attenta considerazione nel commento critico, ma nel testo ha sempre prevalso la lezione dell’autografo. Nelle note sono state inserite cadenze e variazioni che vogliono rappresentare un modello di varianti possibili nei punti possibili. Toccherà all’interprete, nei limiti delle regole belcantistiche ridimensionate dalla volontà riformatrice di Rossini e nel confine stilistico segnato da precisi orientamenti di gusto, adattarle alle qualità precipue della voce e della tecnica.

Sugli argomenti di pura musicologia hanno prevalso in genere considerazioni di carattere musicale poiché il revisore è convinto che la filologia debba essere al servizio della musica e non viceversa. Dalle note critiche è facile constatare quante volte una intuizione musicale abbia consentito di dare soluzione a un problema testuale. Il volume è illustrato da molte riproduzioni tratte dalle fonti. Le pagine e i frammenti del manoscritto rossiniano rappresentano un’alternativa all’auspicata riproduzione dell’intero autografo, in attesa che nuovi ritrovati tecnici la rendano accessibile. Allegare a ciascuna edizione critica il facsimile dell’autografo è l’unico modo di rispondere ai quesiti degli studiosi più esigenti: solo così sarà possibile conoscere il punto di partenza di ogni problema e giudicare la validità delle scelte effettuate.

Il Barbiere di Siviglia, rispetto ad altre opere rossiniane, presenta alcune certezze che hanno reso più semplice l’impostazione del lavoro:

1. esiste un autografo chiarissimo, non manomesso dall’uso, completo in ogni sua parte con la sola eccezione della sinfonia;
2. esiste l’edizione princeps del libretto, che corrisponde fedelmente alla successione dei brani della partitura manoscritta, riprova della sua integrità;
3. non esistono altre arie composte da Rossini per questo o quell’artista in successive riprese dell’opera, che potrebbero porre questioni di scelta;
4. esistono ottimi manoscritti coevi, copiati con scrupolo esemplare, a fornire riscontri e conferme;
5. esistono buone partiture a stampa dell’epoca, meno curate nei dettagli delle copie manoscritte, ma pur sempre utili per ulteriori controlli.

Al passivo della ricerca stanno invece le distorsioni senza numero che nella pratica secolare si sono sovrapposte al testo rossiniano, le incomprensioni, i tradimenti stilistici. In un contesto di tradizioni così spurio risulta problematico operare una selezione fra il buono e il meno buono, il lecito e l’illecito; anziché offrire paradigmatici riferimenti interpretativi, le tradizioni del Barbiere possono condurre a totali travisamenti di valori.

La collazione tra libretto e testo musicato è risultata importante per valutare l’atteggiamento di Rossini nei confronti del suo collaboratore letterario. Vi si ravvisano scelte che sorprenderanno quanti ritengono che il pesarese fosse di facile contentatura al riguardo. Non solo Rossini si è più volte scostato dai versi dello Sterbini, ma lo ha fatto coerentemente, rifiutando un certo tipo di espressioni rozze e banali e manifestando così le sue riserve per una comicità dozzinale.

La nuova pubblicazione della Casa Ricordi è una prima risposta a quanti si battono da tempo per affermare la necessità di una rilettura critica dei testi del repertorio melodrammatico. Musicisti e studiosi avvertono con sempre maggior disagio che gli strumenti dei quali sono costretti a servirsi, partiture, spartiti, materiali d’orchestra, non rispondono alle esigenze di scrupolo filologico recepite ormai dai testi letterari. Alla base della loro compilazione, spesso vecchia di secoli, sono mancati i criteri di ricerca analitica e comparata messi a punto dalla moderna linguistica. Da anni istituti e fondazioni sorti col preciso scopo di porre rimedio a una delle principali cause del decadere di un gusto che si va addormentando nella più acritica e provinciale routine disperdono danaro, entusiasmo e credito in dispute dotte quanto sterili sui modi di realizzare gli auspicati testi. L’accordo fra gli esperti, combattuti fra le rigide richieste del massimalismo accademico e le più sfumate esigenze della pratica e del buon senso, è difficile; ancor più difficile l’accordo con gli editori, presso i quali hanno valore le leggi di mercato. La diffusa popolarità di molte di queste opere nasconde il pauroso svuotarsi di motivi spirituali in assonanza con la cultura contemporanea, e maschera la crisi che investe il teatro musicale quando non sia visto con la sensibilità dell’uomo di oggi. Potrebbe salvarsi soltanto se reinserito nel vivo del pensiero moderno attraverso la riscoperta e la puntualizzazione di quei valori assoluti che l’attualità non rifiuta, valori che un nuovo atteggiamento critico può rimettere in luce e sceverare dalla mortificata mediocrità.

Il ritardo, certo, non è dovuto esclusivamente a cattiva volontà: i testi operistici presentano problemi singolari, estremamente complessi. Il melodramma ottocentesco italiano non fu sempre considerato opera d’arte completa, da rispettarsi nella sua integrità come le Sinfonie, le Sonate, i Quartetti e le altre forme musicali classiche. I suoi testi subivano le manomissioni più disparate: i teatri, riprendendo una data opera, richiedevano al compositore qualche nuovo pezzo per solleticare l’orgoglio del pubblico; i cantanti alla moda lo incitavano a scrivere arie più adatte alle loro peculiarità; i direttori d’orchestra sopprimevano o sostituivano di loro iniziativa quelle troppo difficili per gli artisti scritturati; le censure imponevano adattamenti e tagli per non urtare la suscettibilità dei potenti; gli stessi autori non si peritavano di apportare modifiche suggerite dall’esperienza degli allestimenti. Ci si trova così di fronte a più lezioni dello stesso testo, e il problema, oltreché storiografico, diventa metodologico. Quale atteggiamento dovrà tenere l’esegeta di fronte a successive versioni autografe? Dovrà ricercare la prima, la più antica, o accogliere le posteriori, quelle che dovrebbero supporre un più maturo ripensamento e l’apporto dell’esperienza esecutiva? Quando si tratti del rifacimento di un’intera opera, come nel caso del Maometto II diventato Le siège de Corinthe, la soluzione è semplice: si dovranno pubblicare i due testi, nati da diversi momenti creativi, rispondenti a gusti e orientamenti ben distinti: ciascuno sarà studiato come opera a se stante, e il revisore avrà cura di sottolineare parallelismi e differenze. Quando invece siano stati rifatti singoli frammenti o brani la decisione è meno ovvia anche se, a mio parere, si dovrebbe optare per la lezione più antica inserendo in appendice le altre e lasciando all’interprete di scegliere, con l’aiuto delle argomentazioni del revisore, quella che giudichi meglio appropriata alla linea interpretativa che intende imprimere allo spettacolo.

Si esamini il rapporto fra la genesi di una creazione artistica e le trasformazioni successive, e si consideri l’atteggiamento del compositore al momento della creazione e dopo, quando si pone di fronte alla sua stessa creatura. Componendo, egli risponde soltanto a un rapporto ideale fra l’ispirazione e l’immagine che la traduce in valori semantici. In quel momento sono lontani dalla sua mente gli aspetti pratici: le difficoltà della realizzazione, i problemi tecnici che la nuova opera comporta, aspetti che solo indirettamente condizionano la fantasia attraverso il mestiere.

Quando l’autore presiede o assiste all’allestimento della sua opera, gli aspetti pratici, le difficoltà materiali, gli accomodamenti imposti dalle circostanze gli si presentano con ben altra evidenza. Da quel momento le sue reazioni non sono diverse da quelle di un esecutore, di un critico, di un normale direttore d’orchestra. Le correzioni, i cambiamenti, le semplificazioni che autorizza sono forse dettate da difficoltà contingenti, da opportunismi specifici, da suggestioni particolari. Anche l’autore risponde alle normali sollecitazioni dell’esecutore-interprete e dimentica che qualche volta il genio gli ha dettato soluzioni avveniristiche che al momento sembrano presentare difficoltà insormontabili ma che il trascorrere degli anni e il progresso tecnico stimolato dalle sue stesse intuizioni faranno diventare normali. Come ascoltatore, anche l’autore è soggetto alle mode e ai gusti di un costume interpretativo che cambia di continuo e che non sempre intuisce al primo apparire i valori più veri e profetici dell’opera d’arte.

Questo discorso, che tocca un argomento spesso ignorato nelle discussioni inerenti alle edizioni critiche, vuol sostenere che la lezione prima di un autografo non deve mai andare perduta, neppure quando i successivi interventi dell’autore siano ben documentati e certi, e le modifiche apportate possano apparire convincenti. Si conoscano senz’altro questi cambiamenti, si riportino in nota, in appendice, o si inseriscano direttamente nel testo quando sono di evidente importanza, ma non si sostituiscano tout court alla lezione originaria cancellandola senza tracce. Questa può contenere elementi utili a comprendere il significato riposto di un atto creativo e giovare grandemente all’interprete illuminandolo con dati di fatto che le abitudini instaurate, diventate tradizione, hanno eliminato.

Qualche esempio varrà meglio a chiarire questo concetto. Nell’autografo del secondo atto della Bohème lo spunto melodico che inizia il “Walzer di Musetta” presenta questa figurazione ritmica:

In un secondo tempo Puccini pretese che la frase venisse modificata così:


Questa la lezione che fu stampata e conosciuta: la correzione venne accolta dal plauso generale e ritenuta tanto più brillante e geniale. In una ipotetica edizione critica della Bohème, chi volesse rimettere in discussione questo tema incontrerebbe ostilità di editori e musicisti. E invece no! A mio parere lo spunto originario ha una sua giustificazione così valida che, almeno in nota critica, va fatto conoscere e difeso. Se si pensa al “Walzer di Musetta” come viene di solito eseguito, seguendo a orecchio una tradizione supinamente accettata, vale a dire lento e stiracchiato, non v’è dubbio che la correzione pucciniana conferisca alla frase maggior mordente e infinitamente più charme. Se però si eseguisse il walzer al tempo indicato da Puccini, NOTA = 104, cioè a quello cui l’autore pensava quando veniva componendolo, la questione cambia aspetto e non siamo più tanto sicuri che la seconda versione rappresenti davvero un miglioramento rispetto alla prima. É probabile che il Puccini ascoltatore si sia arreso all’abitudine universale del tempo dimezzato (Toscanini però seguitava a staccarlo giusto!) e abbia provveduto a rimediare ai danni dell’andamento lento modificando la struttura della frase. In questo caso dunque la lezione prima varrà a suggerire all’interprete un preciso orientamento riguardo al tempo da staccare.

Un esempio di significato opposto si trova nella Traviata. L’aria del tenore che apre il secondo atto, “Dei miei bollenti spiriti”, viene accompagnata da un disegno di strumenti ad arco che nell’autografo sono segnati “pizzicato”. Da sempre quell’indicazione viene ignorata e il disegno eseguito “con l’arco”. I documenti confermano che l’usanza ha origine remota e certo Verdi non fu estraneo alla decisione: un esempio di come la tradizione arrivi a fare testo. L’indicazione di pizzicato, ancorché caduta in disuso, va però rispettata e anzi opportunamente sottolineata da una eventuale revisione critica perché contiene un avvertimento per l’interprete, troppo spesso ignorato. L’aria viene presa di solito a un tempo così veloce che il suo carattere di serena e quieta felicità risulta totalmente falsato. Se gli interpreti riflettessero sul “pizzicato” prescritto da Verdi, si renderebbero conto che l’aria fu concepita a un tempo assai sostenuto: eseguendo “pizzicato” il disegno ribattuto, si potrebbe tenere solamente un tempo alquanto moderato. Anche a non tenere conto di quell’indicazione, deve restare valido l’invito implicito a non precipitare il tempo, come del resto conferma la semiminima = 60 a cui molti sembrano non attribuire valore.

Di esempi del genere se ne potrebbero citare infiniti: ci sembra questo l’argomento più convincente per provare che un’edizione critica deve riportare tutte le versioni che di un dato passo si conoscono, accostandole con un commento ragionato che orienti lo studioso sui loro possibili significati.
Questi criteri non sono stati accolti dalla Internationale Bruckner Gesellschaft, l’organizzazione che non molti anni fa ha iniziato la pubblicazione dell’“opera omnia” di Anton Bruckner. Cito questa impresa editoriale perché è l’ultima, in ordine di tempo, ad aver posto mano alla “Gesamtausgabe” dell’opera di un grande autore. Le partiture apparse sono ottime e ben curate: mancano tuttavia di un apparato critico dove si renda conto delle scelte effettuate fra lezioni discordi. Non si dubita che queste scelte siano state operate con la prudenza necessaria ma, per le ragioni esposte sopra, si vorrebbe che anche l’interprete ne fosse informato.

Seguiamo, a titolo di esempio, la storia della Prima Sinfonia in do minore. Di questa sinfonia Bruckner presentò due versioni: l’una, chiamata Linzer Fassung dalla città dove venne composta, fu terminata nel 1866; l’altra, rifatta a Vienna e perciò chiamata Wiener Fassung, nel 1891. La Bruckner Gesellschaft scelse di stampare la Linzer Fassung, cioè la prima stesura, che riflette con qualche ingenuità ma certo con maggior freschezza l’autentico momento creativo, la diretta traduzione dell’intuizione compositiva non condizionata dai dubbi dell’ascolto e dalle difficoltà della realizzazione. La decisione non è stata semplice, giacché non mancano i sostenitori dell’ultima stesura, la sola pubblicata vivente l’autore, quella che presumibilmente tiene conto dell’esperienza di tante esecuzioni, dei consigli di critici e maestri, dei ripensamenti di una più saggia maturità, degli affinamenti di un mestiere sempre più perfettibile. Non sappiamo se in un secondo tempo la Bruckner Gesellschaft farà seguire nella sua collana anche la Wiener Fassung, consentendo preziosi confronti. Quanto alla Linzer Fassung pubblicata, dobbiamo manifestare perplessità sulla metodologia seguita nella definizione del testo critico.

Bruckner completò la composizione della Prima Sinfonia nel 1866 e fece copiare un esemplare della partitura e trarre le parti d’orchestra dal suo abituale collaboratore Franz Schimatschek. Partitura e parti servirono allo stesso Bruckner due anni più tardi per dirigere la prima esecuzione a Vienna, dove le parti rimasero alla biblioteca della Gesellschaft der Musikfreunde e dove si trovano tuttora. La loro ricognizione mostra che in quell’occasione non vi furono pentimenti da parte di Bruckner: nessuna aggiunta, soppressione o modifica. Le due partiture, l’originale e la copia, furono invece oggetto di successivi cambiamenti di mano dell’autore che vi aggiunse qualche battuta, altra ne tolse col proposito di meglio rispettare la simmetria del periodo musicale e qua e là ritoccò anche lo strumentale. Queste due partiture sono le fonti a cui si è rifatta la Bruckner Gesellschaft. Nella partitura pubblicata non si fa cenno delle differenze fra la primissima stesura, rispecchiata nelle parti d’orchestra adoperate per l’esecuzione viennese, e quella desunta dalle partiture manoscritte. Si aggiunga che poco dopo aver apportato le modifiche di cui si è detto, Bruckner fece copiare un terzo esemplare della partitura da Leopold Hofmeyr: in questa copia il primo e il secondo tempo corrispondono all’autografo modificato (quello posto a base dell’edizione critica) mentre il terzo e il quarto tornano inspiegabilmente alla lezione del 1868 (quella delle parti d’orchestra conservate a Vienna). Si dovrebbe pensare che Bruckner non fosse del tutto convinto degli interventi posteriori e propendesse ancora per la lezione originaria. Una ragione di più per dar modo allo studioso di conoscere gli aspetti controversi di un travaglio creativo che non appare senza ombre.

Come si vede non è solo il repertorio operistico a presentare complicazioni editoriali. Dove però Bruckner rappresenta l’eccezione, Rossini e Verdi sono la regola. Gli autografi di Verdi, confrontati con le edizioni a stampa correnti, presentano cospicue differenze. Tuttavia prenderebbe un grosso granchio chi gridasse allo scandalo: gli archivi di Casa Ricordi sono pieni di lettere e appunti del Maestro nei quali si impongono modifiche a passi di questa o quell’opera. Molto opportunamente i collaboratori di Ricordi hanno riportato i suoi desideri direttamente sulle lastre, senza toccare gli autografi, cosicché oggi ci è consentito distinguere senza difficoltà quanto è stato cambiato in un momento successivo. Sono documenti preziosi che, sommati ai suggerimenti della tradizione, si aggiungeranno agli autografi e alle lezioni antiche per allargare la panoramica delle fonti che il revisore porrà a fondamento di una moderna edizione critica perché risponda quanto possibile agli infiniti interrogativi che l’opera d’arte gelosamente nasconde.

Alberto Zedda

   Publicato nel Bollettino del Centro Rossiniano di Studi.
Anno 1970. N. 1

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